I profughi del 'grande esodo' sarebbero stati 301.900. La quantificazione è il risultato di studi lunghi ed approfonditi da parte di Olinto Mileta e pubblicati da Franco Cecotti e Bruno Pizzamei in Storia del confine orientale italiano 1797-2007 e certificati da Raoul Pupo, studioso tra i più autorevoli della storia dell’esodo e delle foibe, docente all’università di Trieste, componente della commissione mista italo-slovena e recentemente curatore, insieme a Guido Crainz e Silvia Salvatici, di Naufraghi della pace (Donzelli, pagine 260, eruo 28,00). «Olinto Mileta è un esule che ha dedicato decenni della sua vita a questa ricerca e le sue stime sono le più aggiornate e credibili», afferma Pupo. Lo spostamento di popolazione dal confine orientale verso l’Italia si è quantificato, nel dettaglio, in 188 mila venetofoni romanzi autoctoni (è la dizione usata da Mileta), in 36 mila immigrati fra le due guerre, in 3.600 figli di immigrati, in 24 mila rientri militari, amministrativi e loro famiglie dalle zone di confine, in 34 mila sloveni autoctoni, in 12 mila croati autoctoni, in 4.300 fra rumeni, ungheresi, albanesi. Oggi è il Giorno del ricordo, al centro la memoria dell’esodo e delle foibe.
Pupo, l’esodo, dunque, è stato un fenomeno di 300 mila persone? «Sostanzialmente sì. Un fenomeno composito di cui la stragrande maggioranza erano italiani. Sia italiani autoctoni sia italiani arrivati in zona dopo la Prima guerra mondiale. Nel 1936 nella Venezia Giulia gli italiani censiti erano 247 mila. Quindi, facendo le somme, si ha che la quasi completa componente italiana se ne è andata. E agli italiani si è aggiunto un altro flusso di correnti slovene e croate che sentivano il peso del comunismo, oltre alle difficoltà economiche e all’oppressione esercitata sulle pratiche religiose».
L’oppressione comunista, dunque, non ha risparmiato proprio nessuno. «Evidentemente no, se a scappare sono stati anche 46 mila tra sloveni e croati. Un’oppressione duplice, per altro, a carico degli italiani, essendoci anche quella nazionale».
Gli anni dell’esodo non sono stati pochi, ancorché la fuga in massa si sia concentrata subito dopo la guerra. «In effetti i primi esuli si ricordano nel 1943, gli ultimi ancora nel 1958».
E non c’è nessuno che sia ritornato? «Praticamente no, solo pochissimi. Chi è riuscito a ricomprarsi la propria casa».
Il presidente sloveno Türk ha dichiarato recentemente che le foibe costituiscono un problema chiuso dagli storici italo-sloveni. Lei che è uno di questi storici lo conferma?«Sostanzialmente sì. È in corso una nuova stagione di studi che lavora sui meccanismi di decisione del potere jugoslavo. Fino ad oggi l’esodo è stato considerato soprattutto dal punto di vista dei risultati, di quello che è successo e delle forme che ha avuto. Ma a noi storici è sfuggito il meccanismo decisionale in base al quale sono state attuate le politiche che lo hanno determinato e questo ora è possibile approfondirlo perché gli archivi sloveni e croati si stanno finalmente aprendo e ci sono un paio di giovani ricercatori che stanno studiando esattamente come si sono creati i poteri di Tito e del suo regime, che tipo di politica hanno fatto. Si tratta di un lavoro molto delicato, la conclusione sarà fra due anni. Sull’esodo e le foibe, dunque, non c’è granché da aggiungere dal punto di vista della ricerca storica; magari bisognerebbe sapere qualcosa di più sul destino delle persone. Ma è una dimensione che riguarda più la pietà e la memoria che la storia».
La memoria, appunto. Oggi si riparlerà di memoria condivisa. È davvero possibile? «È stato fatto uno sforzo molto importante in Italia nell’ultimo decennio, ancora prima della Giornata del ricordo, per recuperare la memoria di questi fatti, delle vittime e per i familiari che hanno avuto riconosciuto il loro dolore. Chiaramente ogni volta che si recupera una memoria nazionale diversa da una memoria nazionale antagonista si verificano dei problemi. La memoria degli sloveni e dei croati è completamente diversa dalla nostra. Le memorie fra loro non dialogano. È un’illusione, dunque, arrivare ad una memoria condivisa. Sarebbe contradditoria in termini. Le memorie dividono, non unificano».
La memoria, dunque, è da purificare. «È fondamentale la purificazione della memoria. Una purificazione che nasce dal basso, dalle esperienze, da chi è disposto ad ascoltare anche le memorie dell’altro e si rende disponibile a quell’operazione difficilissima che è il perdono, che non è impossibile. Perché c’è la fede».