«Shurat HaDin», il «percorso della legge». Questo vuol dire il nome dell’associazione di avvocati israeliani che ha organizzato un viaggio in luoghi di Israele difficilmente accessibili a qualunque corrispondente che vada da solo. Vado per comprendere come sia possibile che un popolo profondamente occidentalizzato possa reggere serenamente nella vita quotidiana a tutti gli stress che gli osservatori ravvisano. Oppure, come nel linguaggio delle scienze sociali, se c’è una serendipity, un’inattesa realtà sociale che conduce a cogliere novità collettive da interpretare senza pregiudizi. «Shurat HaDin» compie un diffuso numero di azioni legali, in molti Paesi del mondo, comprese molte nazioni arabe, per contrastare terroristi o imprese o gruppi privati che aiutano il terrorismo contro l’Occidente; l’associazione si ispira alle azioni legali collettive delle organizzazioni americane degli anni ’60-’70 vicine a Martin Luther King e a Simon Wiesenthal. Al centro religioso di Notre-Dame di Gerusalemme invece incontro Sergio Della Pergola, ordinario di demografia all’Università Ebraica, dalle cui ultime ricerche emerge che gli stili di vita israeliani risultano all’ottavo posto nel mondo, accanto alla Svizzera, come forte livello di serenità. Il dato viene confermato sia da Eran Lerman, consigliere governativo per la sicurezza nazionale, che dall’ambasciatore Yoram Ettinger, chairman di progetti speciali strategici dell’Ariel Center. Ambedue partono dalla constatazione che in questi ultimi anni, in controtendenza sulla scala internazionale, ci troviamo in uno dei rari periodi della millenaria storia di Israele in cui crescita economica e sociale migliorano senza alleanze geopolitiche. I settori trainanti, dal 2006, sono quelli del commercio e delle aree biotecnologiche, con diffusissime applicazioni anche in agricoltura, dove il ruolo della distribuzione informatizzata dell’acqua è fondamentale. Sicurezza, sanità, robotica e new media sono cresciuti in modo da creare una diffusione di nuovi distretti industriali attorno a Tel Aviv e a Gerusalemme. Per ambedue gli esperti, gestione dell’economia e monitoraggio delle dinamiche socio-demografiche sono strettamente connesse.
Nel suo ultimo lavoro Jewish Demographic Policies («Politiche demografiche israeliane») Della Pergola sintetizza una serie di raccomandazioni in cui è urgente l’elaborazione di un nuovo contratto sociale fra le parti politiche e culturali del Paese, in modo da riequilibrare la difficile polarità tra democrazia e Stato degli ebrei che è il tormento del pensiero sionista sin dalla fondazione nel 1948. Nei briefing con l’ambasciatore Ettinger e con Uzi Arad, grande amico del generale Sharon, presidente del National Security Council, il tema dell’odierna solitudine d’Israele è emersa in tutte le sue sfaccettature. Con gli israeliani prima o poi sorgono sempre quesiti teologico-politici; magari in termini laici, ma con radici bibliche. Paradossalmente la carenza di alleanze di Israele con altri Paesi non è vissuta dalla popolazione come elemento di debolezza, né limita le dinamiche sociali. Va detto che di questa tematica psico-sociale si interessano anche settori speciali dell’esercito denominati Magav, che vuol dire «Controllo dei confini e percorsi di combattimento». Che gli operatori istituzionali abbiano sempre orientato – così viene detto – le loro scelte decisionali verso «rimozioni» positive dei quotidiani tragici avvenimenti, gestendo linee pubbliche spesso caratterizzate da atteggiamenti non negoziabili, è una questione assodata; di continuo però sono accettati compromessi e patteggiamenti e di fatto si è negoziato con gli avversari su tante e microdiffuse soluzioni.Sempre secondo i nostri interlocutori, questa sorta di «doppiezza esistenziale» avrebbe evitato nei decenni trascorsi la depressione sociale che, altrimenti, sarebbe sfuggita di mano ai governanti, provocando un controesodo ebraico, sicuramente una crisi verticale del progetto sionista. Ma di nuovo contratto sociale parlano anche Yossi Yonah e Avia Spivak della Ben Gurion University di Tel Aviv, sostenitori del movimento giovanile che nell’ultimo anno ha espresso – in una fase di sviluppo economico – disagi sociali e nuove richieste di welfare. Crescita economica e disagio sociale spesso si sono accompagnati nei Paesi occidentali; così anche in Israele. Il movimento di rivendicazioni, piuttosto pragmatico, a volte sfugge dalla concretezza, collegandosi a temi di politica estera come il rifiuto delle colonizzazioni nei territori di Giudea e Samaria. Su quelle questioni, per ora, una stragrande maggioranza di israeliani rifiuta il movimento giovanile, mentre per il 69% – come documenta il Jerusalem Report del 30 luglio – il movimento è appoggiato nelle richieste di nuove case popolari, nuovi trasporti, crescita di investimenti scolastici, salute e sicurezza sociale. Anche l’importante rivista di sociologia Eretz Acheret («L’altro Paese») insiste sulla conflittualità intorno a temi di politica interna, aprendo indagini sul carattere giudaico dell’eredità religiosa di 5000 anni, oppure sull’autonomia laica dell’esperienza sionista. La rivista e gli intellettuali di Tel Aviv come Bamby Shelleg e David Banon accordano grande spazio alle questioni sociali, ai problemi dei palestinesi d’Israele, ai rapporti fra negritudine e giudaità, alle nuove minoranze.La voluta rimozione degli incubi di politica estera fa meglio comprendere come la serenità negli stili di vita sia frutto di un difficilissimo modo di vivere nell’instabile equilibrio, ormai più che cinquantennale, a cui è obbligata la popolazione ebraica se vuol restare lì e, al tempo stesso, aspirare a una serenità – come dire – umana. Gli israeliani vogliono restare "umani" e sperare in un futuro più umano di tutto il contesto mediorientale. E non è, ancora una volta, una scelta di vita che scaturisce da sommerse radici bibliche?