Se si dovessero assegnare immagini alla globalizzazione, sarebbero probabilmente quelle di Iñárritu. Il regista messicano vive a Los Angeles, mette in scena storie che scavalcano i continenti, mescolano gli esseri e le culture e celebrano il meticciato.
Babel, premio alla miglior regia e premio della giuria ecumenica nel 2006 al festival di Cannes, era emblematico di questo tipo di cinema. Fra il deserto marocchino, gli Stati Uniti, il Messico e il Giappone si incrociano destini, segnati dallo stesso flagello dell’incomunicabilità.
Biutiful, sugli schermi in Italia nel 2011, narra l’ultima battaglia di un uomo malato di tumore, padre di famiglia divorziato, medium che monetizza le sue comunicazioni con i defunti e piccolo spacciatore che compra il silenzio della polizia. Quanto basta per fare un «polar» (poliziesco e noir) esistenziale che ha per sfondo una Barcellona cosmopolita e povera, dove sopravvivono clandestini africani e cinesi. Stabilitosi da dieci anni in California, Iñárritu si definisce «un immigrato di prima classe, un privilegiato», non lo nasconde, costretto però a espatriare perché il suo Paese è ostaggio della violenza e della corruzione. «Come ogni immigrato, non sono di nessuna parte. Un dramma che è anche un’opportunità. Modifica il vostro sguardo, vi aiuta ad affrancarvi da una certa trivialità. Ad esempio, adoro il mio Paese ma sono ermetico al nazionalismo. Non capisco l’attaccamento alle frontiere, che sono mere finzioni create dagli uomini. Certo, è importante avere il senso della comunità e sapere da dove si proviene. Ma le radici non bastano. Servono anche le ali, altrimenti si è morti». Iñárritu, cresciuto a Città del Messico in una famiglia di 5 figli maschi, ha dedicato
Biutiful al padre. «Era un uomo d’affari, ma molto modesto. Era sempre attivo perché noi potessimo andare a scuola, comprarci le scarpe, avere da mangiare… Il personaggio interpretato da Javier Bardem, Uxbal, è ispirato a lui perché, anche nei momenti più duri della vita, mio padre non perdeva mai il senso della compassione», confida il regista. L’opera di Iñárritu, poetica e piena di rabbia, traboccante violenza e passione, è continuamente in bilico tra la crudeltà e il dono, tra i bassifondi dell’umanità e i momenti di grazia, la notte più oscura e la più straordinaria luminosità. Un cinema spirituale, ma quanto mai fisico e incarnato, che pone le grandi questioni esistenziali: l’amore, la colpa, il perdono… Onnipresente, la grande falciatrice a rivelare il senso delle nostre esistenze. «Più che dalla morte, sono ossessionato dalla vita. I miei film parlano della vita vista alla luce della morte. Sono delle polaroid. Attraverso i miei film cerco di captare l’essenza della nostra epoca. Ogni opera d’arte nasce dal bisogno di esprimere una realtà imperfetta». E Iñárritu continua a denunciare, senza moralismo ma con vigore, una società eccessivamente materialista, dove «l’individuo è divorato dai soldi».
Biutiful, vi torniamo, non ha nulla dell’arringa militante. Vi filtra piuttosto una critica alla sorte riservata agli immigrati sul Vecchio Continente. «L’immigrazione in Europa è diventata una bomba a scoppio ritardato. La gente sa cosa vuol dire essere americani, perché l’ha visto al cinema. Ma i senegalesi o i cinesi che approdano a Barcellona ignorano tutto degli spagnoli. E ancor più dei catalani! Vivono ripiegati nelle loro comunità e non si stanno per nulla "spagnolizzando". La soluzione non è averne pietà, ma valorizzare gli apporti di ciascuna cultura». Sembrano parole intrise di buoni sentimenti. Ma tradotto sul grande schermo il pensiero di Iñárritu fa piuttosto l’effetto di uno schiaffo. Grandioso e salutare.
(traduzione di Anna Maria Brogi)