Il cantautore Eugenio Finardi.
«La cosa più ribelle della mia vita? Le confesso che l’ho fatta nel Duemila, ribellandomi al Finardi che volevano gli altri. Fu un regalo che mi portò a cantare fado e blues prima, e poi, quando ebbi cose nuove da dire, a parlare di nuovo Umanesimo o della realtà di oggi nel disco Fibrillante. Così anche riprendere in mano i miei primi cinque dischi oggi, è figlio di quella ribellione: ormai sono distaccato, dal ventitreenne di Musica ribelle per cui provo orgoglio quasi paterno; però, grazie anche a quella ribellione del 2000, capisco di essere stato coerente con me stesso da quarant’anni in qua. Solo, potessi tornare indietro lo avviserei di certe sliding doors: a evitargli qualche dolore». Eugenio Finardi un po’ si commuove, mentre racconta con acume, entusiasmo e profonda umanità un progetto ben oltre il marketing nella misura in cui Musica ribelle (e Non è nel cuore, Extraterrestre, La canzone dell’acqua e molte altre) non erano normali canzoni. Erano, dice lui, «testimonianze di un sognatore capace di parlare del politico e poi di un figlio»; ma pure, aggiungiamo noi, un modo nuovo di far musica in Italia. Sia dal punto di vista dei suoni (rock italiano con violini e mandolini elettrici) che dei testi: volutamente quotidiani sia che fossero impegnati che di intensa (ma ugualmente coraggiosa) introspezione. La canzone-simbolo di Finardi, appunto Musica ribelle, uscì nel suo secondo Lp Sugo del 1976: e ora quel disco, assieme a Non gettate alcun oggetto dai finestrini, Diesel, Blitz e Roccando rollando, torna a vivere partendo dai nastri originali nel cofanetto 40 anni di musica ribelle, in uscita venerdì su Cd e vinile. In entrambi i box gli album sono accompagnati da libro di testimonianze e foto; con gli Lp pure stampe artistiche, coi Cd un Dvd interattivo per remixare a piacimento tre brani storici partendo dalle incisioni grezze ritrovate da Finardi in uno scatolone della Cramps, etichetta che pubblicò gli Lp fra il ’75 e il ’79. E con la band di allora quasi al completo, Finardi proporrà “musica ribelle” il 4 novembre al Dal Verme di Milano: evento unico a prezzi «volutamente bassi».
Sapere di un cofanetto per i 40 anni di Musica ribelle ci ha provocato suggestioni contrastanti: Finardi ha vinto; anche la “musica ribelle” viene istituzionalizzata ergo neutralizzata. Ci ha pensato?
«Rischi di imborghesimento non penso di correrne più: già al Parco Lambro mi diede del fascista chi poi finì a produrre musica trash… Neppure però ho mai pensato di aver vinto: la mia generazione ha ottenuto diritti straordinari, ma sono anni che si reagisce in modo populista a certe conquiste. Riascoltare questi lavori convalida invece lo spirito di allora, metodi forse inconsapevoli ma non superficiali di creare non per il successo ma per essere utili a una causa; e poi molti contenuti sono purtroppo ancora attuali, come Scuola o La C.I.A., canzone sloganistica scritta in trattoria che oggi evoca Wikileaks… Direi che mettere in cofanetto questi miei lavori mi ha fatto pensare di essere riuscito a fotografare la realtà pure in passaggi allora definiti “da venduto” come Cuba: da cui peraltro il termine “riflusso”, mio modo di parlare, fu preso a definire un’epoca».
Non riscriverebbe proprio nulla, in altro modo?
«Al massimo dettagli. In Scimmia il tema della droga lo facevo un po’ facile, ma il brano è ancora importante per sensibilizzare: persino nell’armadio di mia madre, morta di cancro a New York, ho trovato oppiacei legali, prescritti dai medici. Perché oggi il profitto uccide qualunque etica. Dunque queste canzoni le canterei ancora: del resto, era la mia coscienza a parlare. L’avessi ascoltata sempre…».
Oggi sarebbe auspicabile una nuova “musica ribelle”?
«Tantissimo. Soprattutto bisognerebbe accorgersi che a volte occorrono, prese di posizione drastiche però sempre basate sul ragionamento: invece vedo tanta rabbia, dalla Brexit a Trump. Siamo in un mondo strano, se un ateo storico come me trova che l’unico leader mondiale capace di dire cose logiche, tipo che l’uomo è più importante dei rendiconti, è il Papa».
Cosa la spaventa di più, di questo «mondo strano»?
«Io iniziai a ribellarmi dai vestiti. E quando portai questi dischi in tv, ci andai con un bomberino rosa shocking: fu un suicidio professionale, ma per uscire dal conformismo della sinistra eskimo-barba-capelli lunghi alla Guccini e De Gregori… Oggi al contrario la democrazia del pensiero è da subito minata. Prenda la stepchild adoption, al di là di come la si pensa tocca cinquanta bambini l’anno. Ma è stata usata come arma di distrazione di massa per non parlare di chi è senza lavoro, di chi fugge dalla guerra, del ritorno della schiavitù nei campi… La casa crolla e si discute del colore degli zerbini: così poi nessuno ha più fiducia nella democrazia».
Ma cos’è esattamente per Finardi la “musica ribelle”?
«Guardare la realtà e parlarne stimolando a pensare. Non necessariamente in modo violento, anzi. Anche per questo voglio riproporre questi dischi, fotografano qualcosa che magari in modo spocchioso, avevo capito già allora. Dopo sarei scappato anch’io, anche se non in India come tanti ma a Carimate nel comasco: e sarebbe nata Elettra (la figlia down, nda a darmi mille lezioni. Ma quella è tutta un’altra storia».