Abdulzarak Gurnah - Basso Cannarsa
L’Accademia svedese, leggendo le motivazioni per il premio Nobel per la Letteratura ad Abdulzarak Gurnah, ha detto: «È soprattutto un riconoscimento per l’intransigente e compassionevole indagine degli effetti del colonialismo e del destino dei rifugiati nel divario tra culture e continenti».
Ed è proprio per queste ragioni che ci è capitato di incontrare il professor Gurnah, colto e gentile romanziere, oltre che docente di Letteratura all’Università di Kent.
È nato a Zanzibar, dove è rimasto fino a quando è arrivato in Inghilterra come rifugiato. Gurnah appartiene a una minoranza etnica araba, che è stata atrocemente perseguitata sin dal 1963 in Tanzania, da dove lui riuscì ad andar via, spostandosi con una cattedra universitaria prima in Nigeria e poi a Canterbury, dove ad oggi lavora. Il suo impegno per i diritti civili, per le minoranze, per i temi legati agli effetti sociali del post colonialismo, lo rendono una voce autorevole di quei Sud del mondo spesso divorati dalla cultura dello scarto. In occasione anche del gruppo di lavoro “Refuge in a moving world” in collaborazione con Ucl-African Studies, pose l’accento, in particolare, sulla condizione delle varie aree dell’Africa, invitando a non parlare genericamente di continente africano, ma cercando di prestare occhio, orecchio e cuore ai vari territori e alle diversissime popolazioni. Da oggi, certamente, i lettori italiani impareranno a conoscere un po’ meglio questo scrittore, grazie in particolare a Garzanti, che certamente si attiverà per ripubblicarlo.
Professor Gurnah, a che cosa lei presta occhio, orecchio e cuore?
Ai rifugiati, ai migranti, a coloro che vanno e a coloro che restano. Gran parte dei miei romanzi coprono un lungo periodo precedente alla mia nascita, ma queste narrazioni riguardano ancora me, mentre crescevo a Zanzibar, riguardano la mia storia, la mia famiglia, coloro che sono ancora lì o che sono stati perseguitati; ma riguardano anche i tanti fenomeni migratori che sono in corso nel nostro pianeta, dettati ora dalle guerre, ora dalle pestilenze, ora dalla siccità o dalla deforestazione (penso ad esempio ai cosiddetti migranti a causa del clima)».
I suoi romanzi raccontano le molteplici forme di esclusione e inclusione, espropriazione e inclusioni difficili, che caratterizzano le migrazioni delle genti, oggi e in epoche passate. Lei si basa su una critica letteraria postcoloniale, restando vigile sui diversi processi migratori, che riguardano le persone attraverso il tempo e, soprattutto, lo spazio. Che può dirci della storia coloniale delle sue zone?
Gran parte della storia coloniale africana è stata messa in un cassetto, dimenticata nell’immaginario popolare britannico, anche un po’ colorito. In mezzo alle diverse pubblicazioni romanzate e fin troppo stereotipate, segnalo solo una di buona qualità, La mia Africa di Karen Blixen, un romanzo autobiografico conosciutissimo, pubblicato in tutto il mondo. La storia, come vede, non è dimenticata da tutti davvero. Gli storici del colonialismo, ben più dei romanzieri, studiano questo periodo e questi eventi, così come indagano le vite delle persone, nostri avi, che sono state immerse in questo complesso tempo della storia. Quel periodo è stato un’ostinata guerriglia, fatta di pause e violente riprese, su cui le truppe a guida tedesca probabilmente ebbero la meglio. Quelle britanniche non furono molte. La maggior parte dei soldati erano africani. La maggior parte delle vittime erano africane.
Leggendo i suoi romanzi vien naturale chiedersi il ruolo della critica letteraria e il ruolo della storia, aspetti che lei magistralmente unisce.
Beh, ben prima della critica letteraria, io citerei “Refugee tales”, un gruppo in autentica solidarietà con rifugiati e richiedenti asilo. Lavorando direttamente in collaborazione con coloro, che avevano sperimentato il sistema di asilo nel Regno Unito, e prendendo come modello la grande poesia di viaggio di Chaucer, scrittori, fra cui io, hanno e abbiamo raccontato una serie di storie. Credo che sia anche molto importante citare i Quaderni del ’900, dove si indaga la letteratura postcoloniale italiana (Pasolini, Moravia, Flaiano…). Nel 2002, inoltre, mi sono occupato di Derek Walcott e del suo senso della storia per il mio corso. Per avere una visione storica e letteraria di un mondo nuovo, bisogna avere piena consapevolezza della storia, come Whitman, Neruda, Borges e, in un senso lato, come il poema di Cesaire Cahier d’un retour au pays natal. Il suo saggio ha per epigrafe un bellissimo verso di Joyce: «La storia è l’incubo da cui sto cercando di svegliarmi». Questo vuol dire avere un senso critico della storia.
Dunque, per lei, la vita vera che si fa narrazione…
C’è sempre fiction e realtà. Prenda Il disertore: è una meditazione sulla perdita e sull’abbandono. Inizia alla fine dell’Ottocento in un piccolo paese lungo la costa di Mombasa. Una mattina, sulla strada per la moschea, un negoziante timoroso, è terrorizzato da quello che pensa debba essere un ghul, che si staglia nella luce dell’alba, cioè un’entità sovrannaturale per i musulmani, un mito spesso dedito all’aggressione dei viaggiatori. Ecco perché il negoziante ha paura. A un esame più attento, risulta essere «un uomo dalla carnagione cinerea», Pearce, cioè un coloniale disilluso, che è stato derubato e lasciato quasi morire nel deserto dalle sue guide somale. Hassanali lo porta a casa sua, gli dà da mangiare e da bere e chiama il guaritore. Il tema dell’accoglienza non è mai da sottovalutare. Il secondo capitolo parte dal punto di vista doveroso e senza pretese di Hassanali al mondo imperialista del funzionario britannico locale, Turner. Il resto è noto, ma è chiaro che è un romanzo che, sotto diverse prospettive, parla degli effetti del colonialismo.
Memory of Departure e The Last Gift sono due capolavori, ma quest’ultimo, in particolare…
Spero che anche qui, insieme al punto di vista solito, riguardante le genti in movimento, si comprenda l’ironia del protagonista, residente a Londra, che etichetta i suoi vicini di casa come «questi stranieri europei». Spesso ci sentiamo migranti appena mettiamo un piede fuori casa. Spesso lo siamo per tutta la vita sia oggettivamente che soggettivamente. Non so se le persone si abitueranno a essere immigrate, ma di certo, in particolare per noi che abbiamo vissuto quest’esperienza, sarebbe auspicabile mantenere sempre un’anima accogliente e una mente ricca di memoria, per non tradire i luoghi da dove si è partiti.