Da salvatore della patria, titolare di una stima incondizionata da parte di colleghi e tifosi, a “perdente senza riserva”, battuto fuori e dentro il campo da chiacchiere e avversari. Per Cesare Prandelli, il semestre giugno-novembre 2014 è stato un elenco desolante di risultati da chiudere nel cassetto e cancellare dalla memoria, per sempre. Prima il Mondiale in Brasile, poi la panchina del Galatasaray: poteva essere una stagione colma di gloria è stato invece un tormento dolorosissimo. Prandelli cerca la rivincita. In Italia, se possibile, ma anche all’estero. Perché ciò che conta in questo momento è rialzare la testa e dimostrare a tutti di non aver smarrito il talento per strada. La sfida è lanciata.
Dalla delusione per l’eliminazione dal Mondiale ai mesi difficilissimi sulla panchina del Galatasaray. Dove ha sbagliato, Prandelli?«Se non arrivano i risultati è perché sono stati commessi degli errori. Il Mondiale fa storia a sé. Abbiamo fatto molto bene quattro anni, poi abbiamo sbagliato due partite (Costa Rica e Uruguay, ndr) e siamo tornati a casa. Al Galatasaray mi è stata proposta un’idea innovativa: il presidente mi ha convinto dicendomi che avrebbe comprato altre tre squadre, una italiana, una inglese e una tedesca. L’obiettivo? Dare il via a un progetto di ampio respiro, ambizioso e di prospettiva. Le trattative per l’acquisizione di questi club erano già state avviate, altrimenti non avrei detto sì. I problemi sono cominciati quando il Consiglio direttivo del club turco gli ha voltato le spalle. Ecco, da quel momento sono cominciati i guai. Per lui, che si è dimesso, e per me... Non sono stato esonerato, ma licenziato per ragioni economiche. Ci stavamo giocando la conquista del campionato, le cose in campo non andavano male, tutt’altro».
Con lei al timone, la Nazionale ha ricominciato a produrre gioco, riuscendo nella difficilissima impresa di mettere d’accordo addetti ai lavori e tifosi. Eppure, all’indomani del ko decisivo con l’Uruguay in molti le hanno voltato le spalle. Se lo aspettava?«Sinceramente, no. Ma sapevo che il calcio non ha memoria. Il ct è il primo responsabile, soprattutto quando i risultati non arrivano. È così da sempre. E io mi sono preso le mie responsabilità, anche quelle che avrebbero dovuto per logica essere di altri. Ma sono sicuro che il tempo darà il giusto valore a quanto abbiamo fatto».
Per Leonardo Bonucci, difensore azzurro della Juventus, la causa dello scivolone brasiliano è da ricercare nel suo approccio: troppo computer e poco lavoro sul campo.«I giocatori non hanno la competenza e la conoscenza per dare giudizi in merito alla preparazione atletica e alla strategia. Sono giocatori e devono fare i giocatori, punto. Bonucci è uno dei migliori difensori italiani e ha sempre dimostrato in campo grande attaccamento alla maglia e voglia di fare bene. Ma ripeto, a ognuno il suo».
L’imputato numero uno del tracollo italiano in Brasile è stato Mario Balotelli. Come spiega l’involuzione tecnica di quello che veniva considerato il miglior attaccante italiano degli ultimi anni?«Ho sempre creduto nelle sue qualità e ho sempre pensato potesse diventare uno dei giocatori più forti al mondo. Evidentemente, col passare del tempo ha sentito il peso della pressione e non è riuscito a sostenerlo come avrebbe dovuto. Sono convinto che saprà fare tesoro di tutto per tornare a fare bene. L’ho sempre aspettato, Mario, e spero che qualcun altro faccia lo stesso, perché può ancora fare grandi cose. Dipende tutto da lui».
Dopo aver chiuso l’esperienza Galatasaray è rimasto alla finestra. Per alcuni giorni si è parlato del suo possibile passaggio al Napoli: avrebbe accettato?«Avevo un contenzioso aperto con la società turca, ma l’ho chiuso lasciando sul piatto un altro anno di contratto perché avevo voglia di fare altro. Peccato che sono tornato sul mercato quando i giochi in Serie A erano già stati fatti. Non ho avuto alcun tipo di contatto con il Napoli, che considero una grande squadra, da scudetto. Hanno scelto bene: Maurizio Sarri ha una grande cultura calcistica e un concetto di gioco ben preciso. Personalmente dopo tanti anni credo poco in quelli che vengono considerati “progetti tecnici”. Sono attirato dalle sfide difficili, impossibili, che ti possano regalare adrenalina tutti i giorni».
Il calcio italiano è di nuovo nel pallone a causa della storia nera di Catania. Come convincere i tifosi a continuare a credere in questo sport?«Io non posso convincere nessuno, anche perché ogni sei mesi c’è un nuovo scandalo. Consiglierei alla Lega Calcio e alla Figc di trovare un accordo affinché i settori giovanili ricomincino a produrre giocatori italiani, la base di tutto il movimento. Il motore vero di un rinnovamento necessario, fuori e dentro il campo».
L’Under 21 di Gigi Di Biagio non è riuscita a raggiungere le semifinali dell’Europeo. Colpa degli azzurrini o del “biscotto” servito da Svezia e Portogallo?«Ho seguito l’Europeo e penso che Di Biagio abbia fatto molto bene. La squadra che ha proposto in Repubblica Ceca ha tantissimi giocatori interessanti, poteva benissimo arrivare in finale e vincere il torneo. Il biscotto? Sono dell’idea che l’Italia avrebbe dovuto vincere la partita con la Svezia, perché gli errori si pagano, soprattutto in competizioni da dentro o fuori come l’Europeo».
Cosa ha imparato dalle esperienze negative degli ultimi tempi?«In certi momenti, è difficile vedere la parte bella delle persone. È sempre stata mia abitudine cercare l’aspetto positivo in tutto quello che vivevo, ma nell’ultimo anno mi sono dovuto ricredere su tante cose. Sono ferito, lo ammetto, ma la natura delle persone non può cambiare. Continuerò a illudermi di trovare sulla mia strada persone perbene. Sì, continuerò ad essere un ottimista».
Rimpianti?«Tanti mi chiedono perché abbia accettato di andare in Nazionale. Ma per me è stato un onore, non potevo dire di no. Sono stato scelto per rappresentare l’Italia calcistica, ero felicissimo. Certo, in quegli anni potevo fare altre scelte, ma quando Abete mi chiamò non ebbi esitazioni. E i quattro anni in azzurro mi hanno ripagato di tutto».
Nel novembre del 2007 ha dovuto affrontare la scomparsa di sua moglie Manuela. Qual è l’insegnamento più grande che le ha lasciato?«Nelle ultime settimane era come se avesse organizzato nel minimo dettaglio il suo addio, soprattutto nei confronti dei famigliari. È stata forte e ci ha regalato molta serenità».
Da allora è cambiato il suo rapporto con la fede?«No, non è cambiato, è ancora molto presente nel mio quotidiano. Durante la malattia di Manuela, se non avessi avuto il conforto della fede sarebbe stato probabilmente molto più difficile. Sono convinto che la fede l’abbia aiutata a trascorrere gli ultimi mesi con la serenità che poi ci ha donato».