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L’altra volta li avevano accompagnati i genitori, adesso al cinema ci sono venuti per conto loro. Non esattamente in solitaria, d’accordo. Hanno quindici anni o giù di lì, è naturale che si muovano in branco. Primi amori, ultime ingenuità, popcorn a valanga. Ci sono casi in cui, anche al cinema, è il pubblico a dare spettacolo e sì, l’arrivo nelle sale di Inside Out 2 è uno di questi casi. Più delle anteprime riservate alla stampa, a rivelare il polso della situazione sono le proiezioni nei multisala, meglio se in località di periferia o provincia. Qui trovi i bambini, trovi le famiglie, trovi gli adulti (insospettabili per numero e per tipologia) che a un film Pixar non rinuncerebbero per niente al mondo. Più che altro, trovi loro, le coetanee e i coetanei di Riley, la vera protagonista di questa saga strepitosamente giocata fra desiderio di inconsapevolezza e volontà di maturazione. Divertente, non si discute. E molto istruttiva, com’è giusto che sia un racconto raccontato bene.
L’appello alla complicità generazionale non è una novità in senso assoluto. Già prima che il mercato fosse invaso da Vhs, Dvd e, infine, view on demand, la regola prescriveva che i classici della Disney venissero riprogrammati ogni sette anni. Era un intervallo matematicamente calcolato, secondo una scacchiera di combinazioni per cui la bambina diventata mamma portava la figlia a vedere Cenerentola e il papà diventato nonno portava i nipotini a vedere Lilli e il Vagabondo. La tattica sarà anche superata, ma la strategia è rimasta immutata. In un momento storico nel quale la fruizione del cinema dal vivo è continuamente messa in discussione, uno dei pochi elementi di richiamo è costituito dal combinato disposto tra curiosità e nostalgia. E Nostalgia è, per l’appunto, una delle emozioni che iniziano fare capolino in Inside Out 2. Si presenta con l’aspetto innocuo di una vecchina alle prese con il tè, ma basta darle tempo e ci si renderà conto che non va sottovalutata.
A questo punto, meglio riprendere i fili della trama. Il primo film della serie, Inside Out, uscì nel 2015, a rispettosa distanza rispetto a quella che va considerata come la grande trilogia Pixar degli anni Zero. Tre capolavori in rapida successione: Ratatouille nel 2007, WALL-E nel 2008, Up nel 2009. Intanto proseguiva la saga di Toy Story e si cercava di rinforzare la reputazione di altri microcosmi dell’immaginario Pixar, come quello di Monsters & Co., per molti aspetti il più vicino all’invenzione su cui si fonda Inside Out: da una parte gli incubi notturni dell’infanzia, dall’altra i meccanismi della preadolescenza. Quello che accade in Inside Out, infatti, accade nella mente di Riley, che nel film inaugurale ha undici anni, ha una passione per l’hockey sul ghiaccio e dal Minnesota sta per trasferirsi a San Francisco, in California. Ordinaria amministrazione, non fosse che per l’abilità con cui gli sceneggiatori (tra i quali spiccava Pete Docter, regista del lungometraggio insieme con Ronnie del Carmen) riuscivano a rivitalizzare l’antichissima metafora dell’auriga, contaminandola con le istanze della psicologia comportamentale. L’intelligenza umana, sostiene Platone nel Fedro, è simile a una biga trainata da due cavalli. Quello bianco punta al mondo spirituale, quello nero al mondo materiale. Compito dell’auriga è controllarli in modo che procedano insieme.
In Inside Out, al posto di redini e finimenti, c’è una consolle elettronica alla quale si susseguono le diverse emozioni. Di norma ha la meglio Gioia, ma anche Tristezza vuole la sua parte, mentre Rabbia è imprevedibile, Paura incorreggibile e Disgusto incontentabile. Di volta in volta, Riley cede all’una o all’altra, fino a quando Gioia non ristabilisce l’equilibrio. Ora, se coordinare tra loro cinque emozioni può essere un’impresa, figurarsi che cosa può accadere quando, allo scoccare dei tredici anni e con il relativo scatenarsi della pubertà, si fanno avanti Invidia con le sue fisime, Imbarazzo con la sua stazza ingombrante, la snobissima Ennui – che sarebbe poi Noia, ma in francese è più chic – e l’incontenibile Ansia. Tocca a quest’ultima, in particolare, mettere in discussione il ruolo di Gioia, che con un vero e proprio colpo di mano viene spodestata ed esiliata insieme con le altre emozioni infantili. Rimasta padrona del campo, Ansia fa di tutto per inculcare in Riley una smania di successo che trova sfogo nello sport prediletto e, tanto per cambiare, la porta a non guardare in faccia a nessuno, neppure quelle che fino a ieri erano le amiche del cuore.
Diretto da Kelsey Mann su sceneggiatura di Meg LeFauve, Inside Out 2 è senza dubbio il film di Ansia, che nell’edizione italiana parla con la voce di Pilar Fogliati, la più celebre in una squadra di doppiatori che meriterebbe di essere citata per intero. È, più in generale, un film sulla complessità. Nelle scene iniziali Riley può ancora fare affidamento sul un «senso di sé» che si è stratificato negli anni e che le trasmette la convinzione di essere «una brava persona». Peccato che per Ansia questo non sia abbastanza. Di cimento in cimento, Riley si persuade di non essere all’altezza e si illude di potersi affermare superando ostacoli che lei stessa si pone. In realtà – ed è questa l’intuizione poetica del film – entrambe le sensazioni sono veritiere. Come qualsiasi altro essere umano, Riley è inadeguata e gentile, si contraddice perché contraddittoria è la vita e, alla fine, si salva non avendo la meglio su sé stessa, ma arrendendosi alla Gioia. Nove anni fa i bambini e le bambine che guardavano Inside Out potevano anche non capirlo. L’importante è che lo capiscano le ragazze e i ragazzi che adesso guardano Inside Out 2.