venerdì 26 settembre 2014
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«Non m’interessa il fatto di essere la seconda italiana salita sul K2. Sono felice di avere raggiunto un mio grande obiettivo. Che ora mi pare un punto di partenza, per fare molto di più». Di ritorno dall’Himalaya, Tamara Lunger guarda avanti, e vede altri Ottomila. Con i suoi ventotto anni esplosivi, il dono di un fisico a trazione integrale («Amo fare fatica») e l’orgoglio degli altoatesini doc: «Ad un’impresa – afferma, solare – devi prima credere con il cuore e con la testa, allora riesce».Nella quiete del rifugio gestito dai suoi a Latzfons, nido d’aquila con panorama sulle Dolomiti, Tamara non celebra se stessa. Anche se ha messo piede sulla “montagna degli italiani” il 26 luglio, a 60 anni esatti da Lacedelli e Compagnoni. Anche se prima ci era riuscita, nel 2006, solo Nives Meroi (e 11 straniere in tutto, di cui tre morte in discesa), anche se 70 persone non sono mai più tornate da lassù. «Lo sapevo sì, ma non ho letto tutte le storie del K2, i passaggi più tragici… non voglio farmi condizionare. Parto verso una cima con l’atteggiamento di un bambino, che quando arriva sul posto si lascia stupire, pensa cosa deve fare. Un po’ come Heidi… uno dei miei modelli, da piccola». La fascia colorata per fermare i capelli al vento, il viso bruciato dai raggi d’alta quota, “Heidi” Lunger ripercorre il sogno del K2 col diario tracciato day by day su Facebook. Va veloce anche sui social media “l’alpinista italiana del futuro” con la destrezza con cui scioglie i nodi in parete o si allena sulla slack-line, la fettuccia d’equilibrio. Confessa: «Mi faceva molta paura, il K2. Mi era sembrata una montagna enorme, da panico, quando l’avevo vista due anni fa dal Lhotse. Ci ho pensato una notte intera all’invito di Giuseppe Pompili per questa spedizione, ho chiesto l’ok a mia madre (“Che ne diresti se andassi sul K 2 in luglio, invece di darvi una mano in rifugio?”) e lei mi ha detto: “Tamara, tu devi fare la tua strada”. Da allora, mi sono allenata anche con la testa, ci volevo arrivare a tutti i costi sul K2». Ha preceduto a 8.611 metri il suo compagno di spedizione, l’esperto altoatesino Nikolaus Gruber («Mi ero dimenticata a casa la pila frontale – rivela con una risata – ma lui ne aveva tre»), sgobbando fra il campo 2 e il campo 3 con 30 chili di materiale sulle spalle, ma “volando via” sui trecento metri finali dopo l’epico “collo di bottiglia”, dove le altre cordate erano lente. «A quel punto non vedevo più la cima come una minaccia, ma solo come una bellezza. È lì, mi dicevo. Ce l’ho in tasca. Quello era un momento perfetto, in armonia col mondo».In vetta, una sosta di quasi un’ora: cosa si fa? «Il tempo era ideale, i seracchi fermi. Ho ringraziato Dio, poi ho fatto delle riprese, che potrete vedere fra qualche mese….». Quel giorno sono salite altre cinque donne, tre nepalesi, un’australiana e una cinese, con l’ausilio di ossigeno e sherpa, però. «Dopo l’esperienza di due anni fa, quando ho capito che una difficoltà dei portatori può anche frenarti, mi sono detta: il futuro di Tamara Lunger è senza ossigeno e senza portatori». La promessa di un alpinismo essenziale, testardo negli obiettivi, un po’ solitario. Alla Messner? «Più leggo la sua vita, più mi ritrovo in molte sue scelte – precisa – ma non in tutti i campi».  «Ho bisogno della montagna per essere felice. Ci vado non per le classifiche, ma per trovare me stessa, le nuove sfide mi dicono i miei limiti. Non mi piace stare sulle tracce già battute…», afferma, ma sa bene che una ottomilista deve contare su altre entrate (è pronta per lavorare all’Oktoberfest) e sulla fiducia degli sponsor. Che ora, in lei, investono. L’hanno vista stravincere in coppia con Annemarie Gross la recente “Transalpine-Run”, maratona del cielo lunga 293 chilometri, dalla Baviera alla Pusteria, con dislivello di 14mila metri in 8 giorni. «Ma se gli sponsor mi chiedessero qualcosa che non condivido – riflette – non lo farei…». Uno spirito libero che da bambina voleva andare in bici «ma subito, senza le rotelle» e ha imparato a sciare da sola, altro che lezioni e spazzaneve. Laureata in Scienze motorie a Innsbruck («Non mi vedo a insegnare, ci vuole troppa pazienza») fa la personal trainer e ringrazia sempre l’intuito della sua prof di ginnastica, Barbara Zwerger, moglie di Simone Moro, l’alpinista che l’ha avviata all’Himalaya. La loro prossima spedizione è top secret. Il rifugio alla Santa Croce di Latzfons si trova sul Sentiero Frassati dell’Alto Adige, accanto ad una delle chiesette più alte d’Europa: crede in Dio, Tamara? «Moltissimo. Mi dà molta forza. Ho sentito che quando vai in montagna, Lui ti guarda e ti tiene una mano sopra. Questo mi dà tranquillità». E il coraggio cos’è? «È qualcosa che viene solo dal cuore, da un amore grande». Fiduciosa nella sua forza e cosciente che «non è in cima, ma al campo base che termina ogni impresa», custodisce altri sogni, insegue altri limiti. Auguri, Heidi, ti sorridano i monti.
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