sabato 29 agosto 2020
Esce il 4 settembre il nuovo album di inediti del cantautore romano: «Dell’Ego si ha una percezione negativa, ma è il ponte naturale tra ciascuno di noi e un mondo sociale da scoprire e abbracciare»
Il 55enne cantautore romano Vincenzo Incenzo

Il 55enne cantautore romano Vincenzo Incenzo - Patrizia Zaccolo

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Il primato a Vincenzo Incenzo probabilmente non interessa granché. Eppure il suo album Ego, in uscita il 4 settembre, è il primo della stagione. O, meglio, il primo grande album della stagione. Quella del Covid, quella dei rinvii e della musica sospesa. Incenzo, che due anni fa aveva intitolato Credo il suo esordio da cantautore (pur avendo alle spalle una trentennale carriera da eclettico autore, dalle collaborazioni con Zero, Zarrillo, Patty Pravo, Venditti, Endrigo, Al Bano, Dalla, Vanoni, ai musical Romeo e Giulietta e Dracula opera rock, fino alla composizione di svariate colonne sonore per cinema e tv), torna a sfidare se stesso e il “sistema”, quello che nell’era della tecnocrazia tende sempre più a massificare l’individuo. Ecco perché l’Ego di Incenzo fa bene al cuore ancor più che alla mente, che spesso mente.

Non a caso dopo i singoli lanciati a giugno e luglio ( Un’altra Italia e Allons enfants!), il video che accompagnerà l’uscita dell’album la prossima settimana riguarda il brano L’amore ha un nome solo. Titolo e perentorio proclama, in un deserto di cuori vaganti nel caos parolaio dei nostri asfittici giorni. Con disorientati giovani e “maturi” adulti irretiti da illusorie tecnologiche fascinazioni. «Avverto in maniera violenta l’assurdità della velocità a cui stiamo andando oggi – spiega il 55enne musicista romano –. Sperimento un impressionante vuoto e ho la sensazione di compiere un sacrificio inutile dovendo stare su una giostra collettiva che va a un ritmo che sento essere sbagliato, non umano. E ci ritroviamo catapultati in un’era ipertecnologica apparentemente spuntata dal nulla».

Ma l’Ego di cui parla è un nemico o un alleato?

Si pensa all’Ego come alla sintesi dei peggiori caratteri della persona. Ma intendendolo in questa accezione negativa, si è perso un altro significato: l’Ego è il ponte tra la nostra intimità, le nostre passioni, e il mondo sociale, l’altro da sé. Ecco perché la centralità dell’Ego è cruciale, nella sua essenza. L’Ego è identità, è originalità, è differenza. Oggi si parla in maniera populista di uguaglianza, di parificazione. Ma così com’è propagandato, questo concetto a me fa più paura della disuguaglianza. Attenzione, perché si rischia una generalizzazione pericolosa. Anziché di uguaglianza, si dovrebbe semmai parlare di universale dignità della persona.

In Un’altra Italia ripete più volte la frase: io non sono come te. Perché?

Voglio provare a uscire da un politically correct che ha ormai stancato. Se si dice qualcosa di differente ormai si rischia sempre di offendere qualcuno. Ma io non mi voglio rispecchiare in qualcosa di conformistico, non mi sento omologato. Questa è una società in cui sembra che valga tutto allo stesso modo. Ma è meglio la tradizionale e naturale idea di un padre e di una madre che non avere nulla. Io in questo momento sento in modo particolare il bisogno di valori etici forti. Questo disco lo vuole testimoniare.

Come?

C’è un brano importante, L’amore ha un nome solo. Più passa il tempo più sento la necessità di regole, ma non quelle della politica di turno. Di riferimenti importanti, per cui l’amore vero è una volta sola. Dobbiamo riprendere in mano l’arma della fedeltà. La fedeltà anzitutto al valore fondamentali della persona e all’idea di appartenenza. Questo ci mette alla prova e ci dà la possibilità di essere meno vigliacchi, più autentici. Il contrario della patina superficiale che ci ricopre oggi. Falsa bellezza, solo apparenza.

Quella che denuncia in Allons enfants! citando un po’ Battiato?

Battiato è da sempre sotto la mia lente d’ingrandimento e ho assorbito anche inconsciamente la sua Up patriots to arms di quarant’anni fa. Sono stato innamorato dei dischi di quegli anni e del modo di alzare la voce con ironia. Sì, è una chiamata alle armi anche la mia, ma alle armi dell’intelligenza. A Bogotà o a Medellin, dove sono stato in tournée prima della pandemia, dal basso, dalla gente, si sente una grande energia vitale, la resistenza di un mondo carico di umanità e autenticità. In Italia l’abbiamo vista con la gente che si è rimboccata le mani con il Covid. C’è una grande energia positiva che deve assolutamente trovare spazio e avere voce. Un mondo di anime che deve avere il coraggio di dire il proprio nome. Invece siamo invasi da Tik Tok.

Cosa intende?

Questo social è la fotografia perfetta di ciò che sta avvenendo. In un limitato tempo di attenzione di 15 secondi crediamo di avere una identità mentre stiamo vestendo parole, comportamenti e atteggiamenti di altri. Trovo questo fenomeno abbastanza rappresentativo dell’attuale realtà sociale, per cui se non si fa in un certo modo ci si sente fuori, isolati, non appartenenti. Ovvero soli.

Persone Fuori fuoco, come canta abbracciando anche il rap...

Del linguaggio e del codice espressivo del rap mi piace la possibilità di dire tanto in poco tempo. Mi sarebbero altrimenti servite tre canzoni pop per esprimere quanto ho detto rappando. Nel rap c’è una possibilità di sintesi molto efficace e trovo che quando non è bagnato dalla melodia abbia persino maggiore incisività. Peccato che in Italia abbia perso la grande chance di prendere il testimone dei cantautori. L’aveva fatto Frankie Hi ‘Nrg, ma poi tanti rapper si sono smarriti in megadiscoteche rivendicando lusso e donne. Un’occasione mancata.

Otto inediti nel nuovo album e una cover. Una sfida?

Interpretare Rispondimi è stato un atto di coraggio. L’ho fatta ed è piaciuta a tutti, dal produttore Jurij Ricotti a Fabio Liberatori che aveva curato le tastiere anche allora con Lucio Dalla. Mi è piaciuto recuperare lo spirito del momento in cui è stata scritta. L’ho voluta pubblicare perché ho pensato che sarebbe piaciuta anche a Lucio. Con la tonalità sono partito però più basso, anche perché ho cantato anche la parte che fu di Tosca. Un brano che mi ha costretto a dare il meglio di me come cantante, io che fino al debutto di due anni fa avevo sempre scritto per gli altri.

Com’era nata quella estemporanea collaborazione?

Eravamo in studi vicini, io stavo registrando l’album Attrice di Tosca, mentre Lucio era impegnato con Henna. Per caso sentì una musica a cui stavo lavorando e gli piacque. “Ma c’è già il testo?”, mi chiese. “Assolutamente no” gli risposi subito mentendo, perché in effetti avevo già cominciato a scrivere qualcosa. Così il testo lo scrisse Dalla. All’inizio credevo che volesse regalarlo a Tosca e invece il brano l’ha cantato lui in duetto. Così c’è un mio brano in quel suo album capolavoro.

Anche nel suo nuovo disco c’è Il capolavoro...

Un brano in cui domina la negazione. Sono partito da alcune frasi di Eretici di Chesterton. Mi fa paura un futuro ormai prossimo in cui la felicità è rappresentata non dal desiderio di quello che vorremmo, ma di quello che abbiamo colpevolmente perso. L’ultimo capolavoro, l’ultima opera d’arte sulla terra siamo noi.

Quel “Tutto sarà negato” con cui inizia il brano cosa vorrebbe evocare?

Pietro che rinnega tre volte è per me illuminante. Lui è la persona più vicina a Gesù, ma lì, nella paura e nell’angoscia dell’uomo che si sente solo e perso, dimentica di avere conosciuto la Verità. Questo episodio mi colpisce molto e lo volevo raccontare in qualche modo, ma ho cercato in questa canzone una strada un po’ più sociologica. Mi sembra emblematica, dopo la pandemia, quando vivendo il lockdown sembrava che volessimo andare in cerca di quel pane quotidiano che avevamo buttato. La bellezza perduta di un mondo in cui non ci riconosciamo più, con questa nostra coscienza anestetizzata.

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