Pellegrini in marcia lungo il Cammino di Santiago - Miguel Castaño
Scrive Sylvie Germain in Eclats de sel: «La storia di tutti e di ciascuno ricomincia senza sosta: camminare, camminare giorno dopo giorno sulla Terra, sfidando la pesantezza e l’immobilità, affrontando i cammini del tempo, del reale e del sogno, scrutando la notte e la luce, prestando ascolto ai detti del vento, alle parole degli altri, al canto sordo della Terra, ai clamori della storia, al rumore confuso del proprio sangue, in cui scorrono tutti i misteri, degli echi e delle domande». È un elogio dell’arte del camminare che tiene conto della sua imprevedibilità, della scoperta del silenzio ma anche della fatica e dei pericoli, quello della scrittrice francese che ci ha abituato a percorrere i sentieri della spiritualità cristiana in maniera insolita. Non dissimile la riflessione di un altro scrittore, stavolta non credente, Erri De Luca: «Oggi so che il viaggio è una parola nobile e si riferisce solo a chi lo fa a piedi. Viaggio è cammino senza biglietteria e data di ritorno. Viaggiano i migratori che traversano a piedi Africa e Asia, per togliersi il bagaglio dalle spalle in faccia al Mediterraneo (…). Gesù si spostava a piedi. Salì sopra la nobile cavalcatura dell’asina solo per consegnarsi all’ultima stazione». Il senso del mettersi in marcia e di spostarsi con l’ausilio dei soli piedi, senza navigatori o Gps, diretti verso una meta o a volte anche senza sapere dove andare di preciso, è indagato ora dall’antropologo David Le Breton nel libro La vita a piedi (Cortina, pagine 218, euro 14,00). Innumerevoli i riferimenti letterari, in primo luogo Henry David Thoreau, lo scrittore americano considerato il capostipite della letteratura di viaggio: «Quel che penso - spiegava è che non potrei preservare intatta la mia salute e il mio spirito se non trascorressi almeno quattro ore al giorno, in genere anche di più, a vagare nei boschi, sulle colline e per i campi, completamente libero da qualsivoglia impegno mondano». E in un altro passo fortemente polemico verso i ritmi della civiltà moderna: «Confesso che sono sbalordito della capacità di resistenza, per non parlare dell’insensibilità morale, dei miei vicini che si recludono in botteghe e uffici tutto il giorno per settimane e mesi, ma che dico, per anni interi. Non so proprio di che genere siano fatti - lì seduti alle tre del pomeriggio come se fossero le tre del mattino». Quando Thoreau scriveva questi brani eravamo nel 1862, anno della sua morte, e non esistevano né automobi- li, né televisione né computer. Per lui il camminare era una forma di resistenza verso una sedentarietà che gli pareva contraria alla condizione umana. Così la pensa Le Breton, che parla dell’esperienza del camminare come di una risorsa imprescindibile, una vera e propria forma di resistenza dinanzi alla vita immobile perlopiù condotta dall’uomo contemporaneo, costretto a passare la maggior parte del suo tempo davanti al cellulare o al computer, in macchina o in ufficio. E una celebrazione della lentezza rispetto ai ritmi frenetici. Fortunatamente, sono molti i segnali che oggi ci parlano della riscoperta del camminare, che «da una ventina d’anni conosce un successo planetario». Una passione ben rappresentata dagli itinerari a piedi anche di lunga percorrenza, come il Cammino di Santiago di Compostela e la Via Francigena, su cui a lungo egli si sofferma, che testimoniano la volontà di riscoprire un nuovo rapporto fra il proprio corpo e il proprio spirito, di prendere le distanze da un’esistenza spesso abitudinaria e dagli affanni quotidiani, di ritrovare il senso dell’avventura che permette di fare nuovi incontri ed esperienze. «In Francia, negli anni Cinquanta, si percorrevano a piedi in media sette chilometri al giorno. Oggi, appena trecento metri». Constatazione impietosa. Che spinge l’antropologo a invitare tutti a tornare a servirsi del proprio corpo facendolo uscire dalla gabbia in cui è rinchiuso. Camminare è spesso un’esperienza di guarigione dai propri mali spirituali, che possono essere affrontati con la riscoperta del silenzio, che ci si trovi in un bosco o in un deserto. Solitudine qui fa rima con purificazione di sé, come scrive il filosofo Edmond Jabès: «Non ci si spinge nel deserto per trovare la propria identità, bensì per perderla: per perdere la propria personalità, per diventare anonimi. Poi si produce qualcosa di straordinario, si sente parlare il silenzio». Camminare diventa allora un’occasione di pensiero. Lo dice bene lo scrittore Jean Giono: «Gli uomini, in fondo, non sono stati fatti per ingrassare alla mangiatoia, bensì per dimagrire lungo i cammini, oltrepassando alberi e alberi, senza mai rivedere gli stessi. Muoversi spinti dalla curiosità, conoscere, questo è conoscere». C’è una vera e propria filosofia del camminare, perché camminare significa anche poter pensare, analizzare la propria anima, ritrovare il gusto di vivere.