D’Annunzio (al centro con il bastone) con alcuni legionari a Fiume nel 1919 (Wikicommons)
«La terra di Fiume è insanguinata di sangue fraterno» scriveva D’Annunzio il 25 dicembre 1920 «voi volete dare alla storia atroce d’Italia il Natale di sangue…». Il vate concludeva la sua personale avventura nello stesso tono magniloquente con cui l’aveva iniziata, invocando il sacrificio dei martiri, la strage fratricida e una resistenza disperata e nobile: «Nessuno passerà, se non sopra i nostri corpi».
Esagerava, ma molti avrebbero ricordato le sue parole. E soprattutto gli avrebbero creduto. In effetti, la (ri)occupazione di Fiume da parte delle forze regolari guidate da Enrico Caviglia fu poco più che una scaramuccia, anche se protratta per cinque giorni. Almeno, così dovette sembrare ai combattenti dell’una e dell’altra parte, tra cui si contavano molti veterani della prima linea del 1915-18, abituati a ben altri livelli di brutalità.
Nonostante le roboanti parole con cui venne raccontato dai media (e da D’Annunzio stesso), il cosiddetto «Natale di sangue » fu tutto tranne che uno scontro feroce o un massacro di giovani martiri generosi. I reparti dell’esercito italiano mandati a riprendere il controllo della città lo fecero con riluttanza. La maggior parte dei comandanti (e a dare retta alle testimonianze, anche dei soldati) era più impegnata a non colpire per primo e a recare meno danni possibili che a raggiungere gli obiettivi prestabiliti, il che spiega in larga parte il tasso di perdite tra i ranghi della 45a divisione di fanteria, la grande unità su cui ricadde l’onere dell’attacco finale.
Il fatto è che, nonostante la decisione di porre fine con la forza all’avventura dei “legionari” e degli altri ribelli a Fiume, i militari mandati a mettere in pratica gli ordini del governo, a partire dal generale Caviglia, sapevano bene che alla fine sarebbero divenuti un capro espiatorio mediatico, da dare in pasto a un’opinione pubblica abbastanza stanca della carnevalata dannunziana da non avere più voglia di mobilitarsi per la sua causa, ma ancora sufficientemente sensibile alle sirene nazionaliste della “Vittoria mutilata” da poter essere aizzata (almeno a parole) contro chiunque avesse provato a riportare l’ordine legale sull’altra sponda dell’Adriatico.
Non avevano torto. Su iniziativa di Giovanni Giolitti, che era tornato al potere nel giugno precedente per condurre l’ultimo governo autorevole dell’età liberale, il 12 novembre 1920 Italia e Jugoslavia avevano concluso il Trattato di Rapallo e messo un diplomatico punto fermo all’intera crisi adriatica.
Senza nessuna minaccia e senza retoriche marziali e roboanti, solo grazie all’abile lavoro del ministro degli Esteri, il conte Carlo Sforza, l’Italia ottenne non solo il confine militare più sicuro che potesse rivendicare (la frontiera terrestre venne fissata allo spartiacque alpino dal Tarvisio al golfo del Quarnaro, compresa la strategica posizione del monte Nevoso, così come avevano sempre chiesto i vertici dell’Esercito e come previsto dal Patto di Londra), ma anche la fine di ogni pretesa jugoslava sulla città di Zara e sulle isole di Cherso e Lussino, posizioni chiave per il controllo dell’Adriatico settentrionale.
Fiume venne eretto in “Stato libero”: di fatto, poco meno che un protettorato del Regno d’Italia (a cui era contiguo anche territorialmente) e un trampolino degli interessi nazionali nei Balcani. Considerato l’isolamento italiano del 1919, fu un successo straordinario, e una chiara sconfitta diplomatica per il regno SHS, che dovette accettare più o meno tutte le condizioni di Roma in cambio di poche concessioni, di qualche accordo economico e finanziario e, soprattutto, del riconoscimento internazionale che l’Italia aveva sempre, con mille tatticismi diplomatici, negato.
Aver ottenuto gli 89 chilometri quadrati dell’isola di Lissa (di infausta memoria per gli allori nazionali italiani, ma di scarsa importanza politica e militare) non fu sufficiente per i delegati jugoslavi, che una volta tornati in patria vennero accusati di aver venduto in schiavitù il loro nuovo Stato.
Al governo di Belgrado, del destino, delle città dalmate e delle isole del Quarnaro interessava abbastanza poco. Croati e sloveni si sentirono traditi dal centralismo serbo e capirono una volta di più che la promessa di uno Stato federale era naufragata pochi minuti dopo l’annessione al regno dei Karageorgevic, ma, a parte strepitare, potevano fare ben poco. Il compromesso su Fiume fu, alquanto paradossalmente, la prima tappa significativa per la disintegrazione del neonato Stato “nazionale” slavo, un processo che si sarebbe compiuto nel sangue della guerra civile settant’anni dopo.
Il «Natale di sangue» fu anche la conclusione della parabola politica di Gabriele D’Annunzio e l’ultimo anelito dell’interventismo nella sua declinazione nazionalista più becera. Un artista della parola e un talentuoso agitatore populista, D’Annunzio rese familiare agli italiani un confronto ideologico sempre più brutale e spietato, condotto secondo le logiche della lotta armata, che il fascismo avrebbe fatto proprio, insieme a molte delle sue pose oratorie e dei suoi slogan.
Oggi quell’armamentario verbale e rituale può sembrare grottesco, ma le masse a cui si rivolgeva erano le stesse abituate alle invettive violente, all’odio senza requie e alle invocazioni per lo sterminio del nemico che la cultura di guerra, mobilitata in nome del conflitto totale, aveva dispensato a piene mani già dall’anno della neutralità.
Nel clima di crociata patriottica, di opposizione manichea tra cittadini leali e nemico interno abbattere a ogni costo, che contraddistinse la guerra civile non dichiarata esplosa nell’Italia del 1914-1915, D’Annunzio brillò come un eccellente trascinatore di folle, un modello di quel capo popolo estremista che sarebbe divenuto il protagonista principale della lotta politica subito dopo il 1918.
La riconquista di Fiume parve spazzare via la minaccia di questi agitatori dalla scena, e restituire il controllo della vita pubblica al governo centrale, in un estremo e apparentemente riuscito tentativo di riportare il Paese a prima del 1914. Un’epoca apparentemente felice in cui ogni ministero, ogni prefetto e ogni comandante territoriale poteva affrontare con una relativa serenità il periodico scoppio di disordini nella Penisola, semplicemente perché alcune certezze erano inscalfibili: che non esisteva alcuna milizia di partito in grado di contestare il monopolio della violenza legittima alle forze dello Stato, che anche i più gravi tumulti sarebbero stati sedati una volta concentrato un relativamente piccolo numero di Carabinieri e militari e che ufficiali e soldati avrebbero comunque fatto il proprio dovere (e che soprattutto non avrebbero perso la testa per inseguire un letterato che arringava le piazze).
Ma il ritorno all’ordine fu solo un’illusione. La fine dell’avventura fiumana chiuse il cerchio della mobilitazione ideologica violenta e parolaia del «maggio radioso», quando i giornali nazionalisti invitavano ad assaltare la Camera dei deputati e D’Annunzio gareggiava con altri retori nell’invocare l’assassinio dei parlamentari e di ogni esponente della classe dirigente, ma personaggi più pericolosi e astuti, come Benito Mussolini, avevano già occupato lo spazio mediatico e politico lasciato libero dal vate. Così, Fiume fu un’occasione perduta. La prova di orgoglio dello Stato mise fine all’avventura dei legionari ma non riportò stabilità in Italia, come speravano Giolitti e i suoi sostenitori.