Julian Carron - Romano Siciliani
Anticipiamo in queste colonne uno stralcio del nuovo libro di Julián Carrón Il risveglio dell’umano. Riflessioni da un tempo vertiginoso a cura di Alberto Savorana, in uscita in formato ebook per Rizzoli nella collana Bur Saggi (pagine 70, euro 3,99). Nato nel 1950 a Navaconcejo (Spagna) e ordinato sacerdote nel 1975, Carrón dal 2004 si è trasferito a Milano, chiamato da don Giussani a condividere con lui la responsabilità di guida del movimento di Comunione e Liberazione; è presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione dal 19 marzo 2005. Il risveglio dell’umano riflette sulla vertigine che tutti stiamo vivendo e che ci porta paradossalmente a riscoprire l’essenza dell’umano: «L’irrompere imprevisto e imprevedibile della realtà, con la faccia del Coronavirus.» Ci siamo resi conto di vivere in una “bolla”, in cui, inattaccabili, avevamo aggiogato le sfide della vita, e ora ci ritroviamo più vulnerabili che mai.
Questo periodo di forzata solitudine può essere una grande occasione per l’approfondimento dell’esperienza cristiana, per la maturazione della fede, cioè per la scoperta del contenuto dell’incontro fatto, dell’origine di quella compagnia che si è iniziata a sperimentare come luogo generativo di sé, della propria consistenza. Se non avviene questa scoperta, si resta alla superficie, si rischia di ridurre sociologicamente l’avvenimento cristiano, di svuotare la compagnia del suo autentico significato. Provo a spiegarmi con un episodio. Un mio giovane amico si è laureato e ha iniziato una nuova vita. Di conseguenza, non ci possiamo vedere più così spesso come quando frequentava l’università. Di recente si lamentava di questo con me. Gli ho ricordato un brano del Vangelo. Un giorno i discepoli si trovarono in barca con Gesù e si accorsero di essersi dimenticati di prendere dei pani. Nonostante fossero stati testimoni di due miracoli grandi come castelli – due moltiplicazioni di pani come mai erano successe nella storia –, cominciarono a litigare tra di loro perché si erano dimenticati i pani. Facevo dunque notare al mio amico che Gesù era lì, accanto a loro, sulla barca! E loro continuavano a lamentarsi! Il problema non era che fossero soli, perché Gesù era con loro, ma per loro era come se non ci fosse. E infatti discutevano tra loro che non avevano pane! Per mostrare dove fosse il problema, Gesù non fa un altro miracolo. A cosa sarebbe servito farne un altro, dopo tutti quelli che avevano già visto? Che contributo dà allora Gesù? Rivolge loro tre domande. La prima: «Quanti pani sono avanzati dopo la prima moltiplicazione?». E poi: «Quanti ne sono avanzati dopo la seconda? ». E infine: «Ancora non capite?» (Mc 8,19–21). Come è prezioso il contributo che Gesù offre ai suoi amici non risparmiando loro le domande! Non aggiunge spiegazioni, non compie altri miracoli, ma li sollecita, dal di dentro della loro esperienza, a usare fino in fondo la ragione, in modo che essi possano rendersi conto di chi hanno incontrato (avevano con sé il signore del “panificio”!). Se non avevano capito, attenzione, non era perché fossero da soli o non disponessero di elementi sufficienti, ma perché non avevano ancora usato bene la ragione. Gesù infatti si era svelato loro attraverso i molti segni che avevano visto, di una risposta eccezionale, finalmente corrispondente al cuore, al loro e all’altrui bisogno di uomini, in tante occasioni, anche drammatiche, ma essi non avevano ancora riconosciuto chi era, con quel riconoscimento che si chiama fede e che «fiorisce sull’estremo limite della dinamica razionale come un fiore di grazia, cui l’uomo aderisce con la sua libertà» (L. Giussani, S. Alberto, J. Prades, Generare tracce nella storia del mondo). La fede cristiana non è il riconoscimento del divino, ma del “divino presente” nell’umano, in Gesù di Nazareth, in Cristo, e oggi in quel segno di Cristo che è la compagnia dei credenti in Lui. «L’avvenimento di Cristo permane nella storia attraverso la compagnia dei credenti» ( Ibidem); «Gesù Cristo, quell’uomo di duemila anni fa, si cela, diventa presente, sotto la tenda, sotto l’aspetto di una umanità diversa. L’incontro, l’impatto, è con una umanità diversa» (L. Giussani, Qualcosa che viene prima), con un fenomeno di umanità diversa: uno vi si imbatte e vi sorprende un presentimento nuovo di vita, qualcosa che aumenta la sua possibilità di certezza, di positività, di speranza e di utilità nel vivere. A molti di noi può essere capitato questo “impatto”, senza che sia maturato quel riconoscimento che si chiama fede, che fiorisce come grazia sull’estremo limite della dinamica razionale, implicando quindi tutto il percorso della ragione, della affezione e della libertà dell’uomo. Questa circostanza di isolamento forzato, proprio in quanto ci sollecita a non dare per scontata la realtà umana in cui ci siamo imbattuti, può essere una grande occasione per lo svolgersi più consapevole e personale di questo percorso, per accorgerci della natura dell’avvenimento che ci ha raggiunto nella forma di un incontro umano affascinante e persuasivo. Possiamo cogliere l’occasione oppure abbandonarci al lamento, come i discepoli sulla barca.
Alberto Savorana: Resta comunque, in questa situazione di isolamento forzato, il fatto di non poter condividere il dolore, la sofferenza, dei propri cari, di doverli abbandonare in ospedale...
Julián Carrón: È la questione che mi ha posto una ragazza di Madrid durante l’incontro con alcuni universitari con i quali mi sono collegato in videoconferenza l’ultima settimana di marzo. Diceva: «In questi giorni mio nonno è all’ospedale, probabilmente morirà e in famiglia abbiamo una domanda grande, perché non possiamo essere lì con lui; non solamente sta morendo, ma è da solo a morire. Io sento tutta la mia impotenza e mi dico: “Perché non posso stare con lui? Perché non posso fargli compagnia adesso?”». È evidente qui che la circostanza richiede e in un certo senso impone un sacrificio: quello che vorremmo fare non è realizzabile, ci è impedito. Ma il punto è di nuovo se la circostanza, così come essa ci è “data”, cioè nella sua inevitabilità – non la possiamo togliere, cambiare, modificare, altrimenti, soprattutto in casi come questi, provvederemmo subito e sensatamente a farlo – , è tomba, vuoto assoluto, puro annientamento, o è vocazione, il luogo di una misteriosa chiamata, il modo con cui il Mistero, che tutta la realtà sottende, provoca me al compimento del vivere, a camminare verso il destino. Questa è l’alternativa. Se riconosce la realtà come una chiamata, quella ragazza può dire, come infatti ha detto, proseguendo il suo intervento: «Anche questa circostanza è per me. Anche questa impotenza è per me. Anche la solitudine di mio nonno in ospedale è per lui. A me è chiesta la disponibilità ad aderire a quel segno del Mistero che sono le circostanze, a seguire la provocazione della realtà». È vertiginoso, dicevo prima, ed è drammatico. Il Mistero si è fatto carne perché l’uomo potesse sostenere questa vertigine, attraversare e abbracciare questo dramma. Quella ragazza lo ha documentato davanti a tutti coloro che la ascoltavano. Il “sì” alla circostanza diviene il “sì” al Mistero fatto carne, a quell’uomo, Gesù Cristo, morto e risorto, presente qui e ora – duemila anni dopo – nella carne di una compagnia umana generata da Lui, distinguibile per certi inconfondibili tratti di umanità. «La verità della fede», diceva Giussani nel 1972, in un momento storico denso di difficoltà, si vede «dalla capacità di rendere strumento e momento di maturazione » quello che ci «appare come obiezione, persecuzione, o comunque come difficoltà » (L. Giussani, La lunga marcia della maturità).