Lui li chiama «tempi agricoli» quei tredici anni passati a inseguire licantropi, fiere ed altri sinistri abitanti di mondi rurali sottratti alla contemporaneità, ma sferzati solo dal vento e dal ritmo delle stagioni. Lui è Vinicio Capossela e il frutto di tanta attesa le ventinove canzoni che affiorano dal nuovo album
Canzoni della Cupa, nei negozi da oggi. Un mondo a parte, arroccato sui monti dell’Alta Irpinia, che è lo stesso raccontato lo scorso anno dal romanzo
Il paese dei Coppoloni e portato nelle sale a gennaio dall’omonimo film di Stefano Obino. A parlarne è Capossela stesso in un vecchio diurno di Piazza Venezia riaperto dai volontari del Fai di Milano. Sepolti sotto la polvere del tempo i bagni pubblici, le terme, barbiere, manicure, agenzia viaggi e fotografo sembrano promettere tutto quel che serve a imbarcarsi in questa nuova avventura del visionario campano, nato ad Hannover ma rimasto stritolato dalle radici una volta tornato a cercare il proprio passato nel borgo paterno di Calitri. Anche se il vero paese dei Coppoloni è Cairano, a una sessantina di chilometri da Calitri, ed è lungo quelle strade inerpicate tra la valle del Nerico e l’Appennino, tra Basilicata e Campania, che Capossela lascia briglia sciolta a un bestiario interiore così popolato da necessitare di un doppio cd. Il primo,
Polvere, vive di canzoni folk attinte da canti di paese, da sonate e da antiche ballate della tradizione trobadorica, ma anche dal repertorio di grandi interpreti del passato come Matteo Salvatore. «Le prime registrazioni risalgono al 2003 e le ho fatte a Cabras, davanti a una distesa di tetti bassi affacciati sul Golfo di Oristano, con un piccolo gruppo di musicisti che sembrava uscito da una barzelletta: due francesi, un rumeno, un sardo e un modenese. Suonavamo cose sul solco di Matteo Salvatore, che reputo il più grande cantore dell’ingiustizia, del sopruso, del mondo del latifondo meridionale. Ho avuto il privilegio di conoscerlo ed è stato come andare dal ciabattino a imparare il mestiere. Salvatore è stato una chiave d’accesso a questo mondo, mentre ascoltavo le sue parole mi chiedevo: posso interpretare il folk? Un po’ la stessa domanda che mi facevo da ragazzo divorando i dischi di Tom Waits: sarei capace di scrivere canzoni con quella stessa epica parlando dei luoghi che mi sono più vicini? A convincermi per il sì è stato Pier Vittorio Tondelli che nei suoi romanzi riusciva a rendere degno di racconto anche il posto ristoro della stazione di Reggio Emilia». Il secondo tomo,
Ombravive quasi interamente di canzoni inedite, scivolando più a fondo nel mistero della Cupa. Un universo sospeso tra miti, leggende e vecchie credenze che Capossela esplora assieme a musicisti italiani di prestigio come Antonio Infatino, Giovanna Marini o la Banda della Posta, ma anche statunitensi come i Calexico, Howe Gelb e David Hidalgo dei Los Lobos. Non c’è nulla di rassicurante nella musica folk, diceva Bob Dylan.
Canzoni della Cupa lo ribadisce, anche se i pezzi sono tanti e l’ascolto a tratti si fa impegnativo. Ma Capossela è così, troppo preso a organizzare i suoi sogni per mettersi pure nei panni dell’ascoltatore. Con lui è solo un prendere o lasciare. E c’è da giurare che prenderanno in molti, nonostante biglietti un po’ più cari del solito legittimati, assicura lui, dalla presenza di undici musicisti sul palco e da una scenografia «importante» ispirata alla mietitura. Al via il 28 giugno dalla Cavea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, il tour estivo nelle piazze e nei luoghi d’arte prende titolo dal primo volume delle
Canzoni della Cupa, Polvere, per ribadire il carattere di un suono aggressivo e terragno. Completamente diverso quello autunnale nei teatri, che si chiamerà ovviamente
Ombra, e racconterà un Vinicio più sognante, notturno. In mezzo, dal 22 al 28 agosto, lo Sponz Fest di Calitri, di cui Capossela è direttore artistico.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Il cantautore di origini irpine esce con le “Canzoni della Cupa”, un doppio cd dai «tempi agricoli» Vinicio Capossela