Il record dell’ora è tornato di moda. D’un tratto il ciclismo ha rispolverato uno dei suoi primati leggendari. Ma a far tornare alla ribalta un record che ha pedalato sulla china di tre secoli non sono stati i campioni da prima pagina, bensì i loro gregari che non sono nemmeno specialisti delle cronometro. Il tedesco Jens Voigt, a metà settembre, e l’austriaco Matthias Brandle, la settimana scorsa, hanno aggiunto il loro nome in cima a una lista che come capofila aveva un altro carneade, il ceco Ondrej Sosenka. A volte basta poco per avere uno scampolo di gloria, basta saper cogliere il momento opportuno, senza pensarci troppo. E lo strapazzato record dell’ora offre questa occasione. A dire il vero la offre da una quindicina di anni, con la complicità dell’Uci, il governo mondiale della bici, che nel 2000 aveva deciso di cancellare tutte le misure realizzate in sella a bici avveniristiche e ipertecnologiche - lontane parenti di quel trapezio con le ruote sulle quali si pedala da sempre - con il pretesto che un primato deve essere il frutto della prestazione dell’atleta, non del mezzo. Con un improvviso colpo di spugna l’Uci aveva depennato nove primati, da Francesco Moser (1984) a Chris Boardman (1996), 12 anni e 5 chilometri e mezzo di evoluzione spazzati via per riportare le lancette al 1972, alla straordinaria prestazione di Eddy Merckx, quando scese in pista a fine stagione e senza la minima preparazione specifica. Poi, nella scorsa primavera, un nuovo cambiamento di rotta: si possono usare le bici adottate normalmente nelle gare su pista, che prevedono qualche soluzione aerodinamica come le ruote lenticolari e le appendici sul manubrio. Una spinta notevole per chi pedala e un nuovo stimolo per chi le bici le costruisce. La storia recente del record dell’ora è l’esempio delle tante scelte scriteriate adottate dall’Uci negli ultimi anni al fine di modernizzare il ciclismo. Uno dei tanti tentativi di adeguarlo ai tempi senza, però, tenere conto della sua essenza, di quel filo sottile che lo lega alla sua storia. Perché per svecchiare non è necessario buttare via tutto il passato e per scrivere nuove regole bisogna riflettere. L’Uci, invece, ha scelto la strada dell’improvvisazione e dei ripensamenti, un difetto che continua condizionarne le scelte. La macchina del tempo attivata dai burocrati dell’Uci ha riportato il primato dell’ora a un’epoca e a un sentimento molto lontani da quelli del ciclismo moderno, più attento al portafogli che alla storia. Questo record dà un grande prestigio o, meglio, lo dava finché vi si cimentavano i fuoriclasse - ma non elargisce un centesimo, peccato imperdonabile agli occhi dei campioni milionari degli ultimi anni, molto attenti a programmare la stagione su un paio di appuntamenti remunerativi per le loro tasche e allettanti per gli sponsor. Per approcciare seriamente un record bisogna investire tempo e denaro sacrificando una parte della stagione, occorre saltare le classiche o le grandi corse a tappe, al massimo utilizzarle come preparazione. Pochi hanno il coraggio di farlo. E non lo ha avuto nemmeno un corridore come Lance Armstrong, uno dei pochi che, negli ultimi vent’anni, aveva nelle gambe la giusta potenza, anche se poi si è scoperto che era alimentata dal doping. Ma il corridore della 'nuova frontiera', priva di cultura ciclistica, ha alimentato la moda di puntare su un solo grande e remunerativo obiettivo, come il Tour, snobbando le prove che hanno fatto la storia del ciclismo. Così il record dell’ora è stato accantonato e dimenticato, ritenuto antiquato e inutile dai nuovi arrivati - sia in sella che dietro la scrivania - , provenienti da Paesi privi di tradizione ciclistica. Un record impolverato e in decadenza, come il velodromo Vigorelli di Milano, il prestigioso palcoscenico di ogni tentativo prima di scoprire i vantaggi dell’altura ed emigrare sulla pista ad oltre 2mila metri di Città del Messico. Un record ridotto a prestazione da pensionati. La prima misura della nuova era fu stabilita, subito dopo la riforma nel 2000, da Chris Boardman. Il britannico, che si era visto depennare il suo strabiliante 56,375 km: per riprendersi ciò che era suo, aveva staccato la bici dal chiodo un anno dopo avercela appesa. E performance da pensionato si può considerare anche quella di Voigt, per il quale il record è stato l’ultimo atto di una lunga e onesta carriera, messo in scena il giorno dopo aver compiuto 43 anni. Ora anche il baronetto Bradley Wiggins sembra intenzionato a dirottare sulla pista gli ultimi scampoli di una carriera che su strada ha ancora poco da dare. Nella lista di attesa si sono iscritti anche lo svizzero Fabian Cancellara e il tedesco Tony Martin, due fuoriclasse delle prove contro il tempo, gli unici in grado di riportare l’ora a un record autentico. Cancellara, dopo tanti successi nelle classiche, è alla ricerca di nuovi stimoli: aveva già programmato il tentativo per quest’anno ma è stato costretto a cambiare idea dopo il ribaltone regolamentare. Martin, invece, vorrebbe aggiungere una voce sostanziosa al suo albo d’oro ricco solo di cronometro. Intanto, a godersi uno scampolo di celebrità è il 24enne austriaco Brandle, il detentore provvisorio del primato, consapevole che almeno metà del gruppo potrebbe superare il suo record, basta solo provarci. Almeno per ora.