Il Lombardo-Veneto divenne austriaco nel 1815, dopo il Congresso di Vienna, al termine dell’avventura napoleonica. A sud c’era lo Stato pontificio e il confine era segnato dal Po, lungo il quale, sulla sponda sinistra del fiume, si distende il Polesine, cioè l’attuale provincia di Rovigo. Una terra anfibia, allora prevalentemente paludosa, che raramente aveva fatto parlare di sé. Ma il fatto di essere diventato l’estremo lembo meridionale dell’immenso Impero d’Austria, la zona di confine, le diede improvvisamente importanza.
Nell’intrico dei canali e delle valli polesane passavano contrabbandieri, disertori, briganti. Ma passavano anche le idee. E di queste, più o meno confusamente rivoluzionarie, erano ricchi tanto i territori del papa quanto il Regno delle Due Sicilie, dove si agitavano le società segrete, in particolare la Carboneria. Sul Polesine, quindi, il governo austriaco mise subito gli occhi, rinforzandovi le forze di polizia e la rete degli informatori. Ed ebbe perfettamente ragione, perché proprio qui, soprattutto a Fratta (il paese che cinquant’anni dopo darà i natali a Giacomo Matteotti), si sviluppò la prima congiura carbonata del Lombardo-Veneto, un episodio che una volta si studiava in tutti i manuali di storia, soprattutto per la figura del suo capo, Antonio Fortunato Oroboni, che con gli altri cospiratori sarà condannato a morte, condanna poi commutata in molti anni di 'carcere duro' nella fortezza dello Spielberg, a Brno, in Moravia, dove morirà nel 1823, poco dopo avervi incontrato Silvio Pellico, il quale dedica alla sua figura alcune delle più belle pagine di Le mie prigioni.
Fin qui la storia dei carbonari di Fratta era nota, almeno a chi ricorda qualcosa del nostro Risorgimento, anche perché ogni anno, in novembre, la vicenda è rievocata in paese con manifestazioni di notevole rilievo. Ciò che invece non era noto è che l’Imperatore in persona, Francesco I, poche settimane dopo l’intervento della polizia che distrusse la cellula carbonara, decise di visitare il Polesine, nel corso del viaggio che l’avrebbe portato a Firenze (la città in cui era nato), poi a Roma, per incontrare il papa, e a Napoli. Alla ricostruzione di questo lungo tour italiano, i cui preparativi iniziarono un anno prima e che durò sei lunghi mesi (dal 2 febbraio 1819, giorno della partenza da Vienna, al 10 agosto, data del rientro) è dedicato ora, sulla base di un diario in tedesco tenu- to dallo stesso imperatore e di molti altri documenti del tempo, il bel libro di Maurizio Romanato e Maria Lodovica Mutterle, Un Imperatore a Rovigo (1819). Francesco I, il “buon padre” oersecutore dei carbonari( Apogeo editore, Rovigo, pagine 512, euro 15). Con un seguito di 98 persone, che viaggiavano su 32 carrozze trainate da 156 cavalli (solo il cambio continuo degli animali presentò enormi problemi organizzativi), Francesco attraversò tutta la penisola, su strade che, pur migliorate per l’occasione, erano spesso solo impraticabili e insicure mulattiere.
Nella piccola Rovigo, allora un borgo murato di neppure 8000 abitanti, si fermò quattro giorni, i primi quattro del mese di marzo, alloggiando nel palazzo più sontuoso della città, quello del conte Angeli (tuttora esistente), mentre il seguito fu sistemato mobilitando tutte le migliori (poche) abitazioni disponibili. Qualcosa di Rovigo Francesco sapeva da lontani ricordi giovanili, dato che il suo precettore era stato proprio un nobile rodigino che aveva fatto carriera sotto gli Asburgo, il marchese Federico Manfredini. Nel suo diario annota tutto – ambiente, persone, clima sociale, stato della città, dei campi, dei fiumi – a conferma che questa provincia di carbonari, cioè di rivoltosi, non gli interessava soltanto per motivi turistici.
L’entrata in Polesine, attraversando l’Adige, e l’uscita, scavalcando il Po, nel periodo di fine inverno, quando i fiumi potevano ingrossare pericolosamente, avvenne su traballanti ponti mobili di barche, dato che i ponti stabili saranno costruiti molti anni dopo. Poi il viaggio proseguì per le mete più importanti: Roma, che non destò nessuna particolare emozione nel sovrano, e Napoli, che lo colpì molto di più, a conferma del fatto, ben noto, che era allora la città italiana più movimentata. A Rovigo, alla partenza dell’illustre ospite, tutti tirarono un sospiro di sollievo. Ogni cosa era filata liscia. Ma le autorità locali tornarono ad agitarsi in luglio perché, inaspettatamente, l’Imperatore sulla via del ritorno si fermò nuovamente a Rovigo per due giorni. E di nuovo il diario riporta le sue minuziose impressioni sulle persone e sul Polesine, ora nel pieno della stagione estiva.
Di questa provincia (allora Dipartimento), che aveva osservato e fatto osservare con la massima cura, due persone non l’avevano convinto: il vescovo, e sappiamo che ai vescovi l’Austria demandava con il controllo delle coscienze anche la stabilità sociale, e l’Imperial Regio Delegato Ferdinando Porcia, una sorta di governatore provinciale. Il primo, il vescovo, Federico Maria Molin, sul quale giravano giudizi poco benevoli anche di carattere morale, pensò bene di togliere il disturbo da sé, dato che morì in aprile, un mese dopo la partenza di Francesco. Il secondo, Porcia, non aveva capito nulla delle agitazioni carbonare in Polesine, come si ricava dalla distratta relazione datata 20 gennaio 1819 (qui riportata), nella quale ebbe la sventatezza di scrivere che «la pubblica tranquillità è pienamente garantita e gli sforzi delle autorità politiche primarie e secondarie sono incessanti per mantenere l’ordine pubblico». Proprio in quei giorni la polizia procedeva ad arrestare i carbonari di Fratta e partiva la celebre inchiesta giudiziaria del giudice Antonio Salvotti, che dal piccolo episodio polesano si estese poi ai più organizzati patrioti lombardi (Pellico, Maroncelli, Confalonieri), tutti condannati a lunghe pene detentive allo Spielberg. Porcia, che nella provincia nella quale tutto era cominciato aveva dimostrato una rara inefficienza, la pagò cara: fu licenziato in tronco alla vigilia dell’arrivo in città dell’Imperatore.