Una scena del musical "La febbre del sabato sera", al Teatro Nazionale di Milano - Ufficio Stampa Compagnia della Rancia
Se gli dite che è “il re del musical”, lui si schermisce. Sarà una definizione giornalistica, però è così. Perché Saverio Marconi, attore, regista, fondatore e direttore artistico della Compagnia della Rancia e della sua scuola, è stato il primo a portare in Italia, con il suo gruppo di artisti e collaboratori, i più celebri spettacoli americani dove si intrecciano prosa, musica, canzoni e balletti. E finora i titoli che la “factory” ha prodotto sono più di quaranta. Ecco quelli di maggior successo: Grease, Cats, A Chorus Line, West Side Story, Sette spose per sette fratelli, Hello, Dolly!,Cabaret, La cage aux folles, La febbre del sabato sera.
Romano di nascita, marchigiano di adozione, Marconi ha cominciato come professionista dello spettacolo 55 anni fa, toccando i vertici anche nel teatro, nel cinema e nella televisione. I fratelli Taviani lo hanno diretto in Padre padrone, palmarés a Cannes nel 1977, film dove si guadagnò un Nastro d’argento come migliore attore esordiente. «Sono stato proprio fortunato – commenta – perché ho cercato il mio talento e non ho fatto nessuna fatica e trovarlo» Ma per affinarlo e farlo diventare un mestiere ha studiato, e tanto.
Quando si è accorto che dentro di sé ardeva “il sacro fuoco dell’arte”?
«Avevo tre anni e otto mesi quando ricevetti dai miei genitori come regalo di Natale un teatrino di carta: ho cominciato a giocarci subito e … da allora non ho mai smesso. Nulla è casuale, quel dono è stato un segno del destino. E poi l’arte ce l’ho nel sangue: mio nonno materno era un musicista pucciniano».
Il primo brivido provato su un palcoscenico?
«Fu nel 1971, nel mio esordio da professionista, nella commedia Giochi da ragazzi di Robert Marasco. Nel cast c’erano Paolo Stoppa e Giuseppe Pambieri, avevo 21 anni, andammo in tournée da settembre a maggio nei principali teatri italiani, fui pagato per l’intera stagione. La regia era di Enrico Maria Salerno. Mi ero formato studiando a Firenze recitazione, danza e canto ma mi mancava l’esperienza. Il copione prevedeva che venissi buttato giù da una scala. Dovevo dire una sola battuta: “Aspetto la palla, professore”. Ma una volta mi capitò che, avendo la voce rauca, non riuscì a pronunciarla bene. Alla fine dello spettacolo Salerno venne nel mio camerino e, affabilissimo e gentile come sempre, mi disse che prima di aprire bocca sul palco se avevo la raucedine dovevo schiarirmi la voce… Con lui, e in seguito con la figlia Chiara, si instaurò un rapporto di grande amicizia, venivano spesso a casa mia».
Saverio Marconi - Web
E al cinema? Il debutto fu con Tonino Valerii in Vai gorilla, un poliziottesco...
«Era il 1975 e avevo un ruolo importante: il fratello del protagonista, che era interpretato da Fabio Testi: per la prima volta il mio nome comparì nei titoli di testa. Fu una bella soddisfazione. Allora non si facevano provini, mi presero dopo aver visto le mie foto. “Hai la faccia giusta” mi disse Valerii, che aggiunse: “Sai guidare la moto, vero?”. Ma io non avevo nemmeno la patente. Dissi di sì, una bugia, ma andai subito a iscrivermi a una scuola guida».
Mamma e papà come reagirono alla sua decisione di fare l’attore?
«Mio padre all’inizio non la prese bene, era un generale dell’esercito e avere un figlio attore lo esponeva alle critiche dei colleghi. Mi disse: “Ma non puoi farlo solo per hobby? Vai a insegnare disegno, piuttosto, saresti un ottimo professore”. In effetti ero diplomato all’Accademia di belle arti (in scenografia e costumi, però), sapevo disegnare bene e avevo ottenuto anche l’abilitazione all’insegnamento. Ma ero troppo attratto dall’arte dello spettacolo. Mia madre invece mi ha sempre sostenuto, ritagliava gli articoli di giornale dove si parlava di me e li custodiva gelosamente in una cartella…».
E arrivarono i fratelli Taviani...
«Da loro ho imparato professionalmente e umanamente. Dopo Padre padrone mi chiamarono anche per Il prato, al fianco di Isabella Rossellini. Con la scomparsa di Paolo e Vittorio se n’è andata una parte di me, un pezzo della mia vita».
Cosa ricorda della sua esperienza sul set di Padre padrone? Come si preparò a interpretare Gavino Ledda, il pastore sardo diventato professore di glottologia?
«Andai in Sardegna una settimana prima che cominciassero le riprese. Per entrare nella parte, vestivo come Gavino, passeggiavo su e giù nell’ovile e intorno alla capanna dove abitava. Un giorno incontrai suo padre che mi disse: “Ma tu non sei mio figlio... lui non è bello!”».
Quando ci fu il grande passo dal cinema al musical e come è nata questa passione?
«Andavo sempre al Sistina a vedere le commedie musicali di Garinei e Giovannini. Non me ne perdevo una. Ma io sin da piccolo ballavo e cantavo, ho anche studiato danza. L’amore per i musical l’ho sempre avuto. Fu Pietro Garinei a incoraggiarmi. E cominciai. In seguito, quando lui mi cedette i diritti de Il giorno della tartaruga, che mettemmo in scena per la prima volta nel 1992, ero sicuro che quella sarebbe stata per sempre la mia strada. Io ero il regista dello spettacolo, protagonisti, nei ruoli che erano stati di Delia Scala e Renato Rascel, scelsi Maria Laura Baccarini e Fabio Ferrari. Curai anche l’adattamento del testo e fui coadiuvato da Michele Renzullo e Tommaso Paolucci, gli amici di sempre, con i quali avevo fatto nascere a Tolentino, nel 1983, la Compagnia della Rancia. Nei primi anni facevamo solo prosa per ragazzi, poi ci siamo specializzati nella commedia musicale. Nel 1988 il primo “esperimento”: La piccola bottega degli orrori, da un film di Roger Corman, con Edy Angellilo e Giampiero Ingrassia. Direi che la cosa riuscì bene…».
E siete diventati i “numeri uno”. Lei nel 2000 ha diretto anche due musical per le Folies Bergére, a Parigi.
«All’inizio adattavamo spettacoli cult di Broadway come A qualcuno piace caldo e Cabaret o film celebri come Le notti di Cabiria e 8½ di Fellini. Ma abbiamo prodotto pure degli show nostri, originali, come Dance! e Pinocchio, con le musiche dei Pooh».
La Compagnia, inoltre, è diventata anche una fucina di giovani artisti...
«Da noi in tanti si sono formati. hanno mosso i primi passi e si sono affermati come attori, perfomer, registi, autori. Alcuni di loro sono diventati celebri, basti pensare a Cesare Bocci, al compianto Manuel Frattini, a Flavio Montrucchio o Mauro Simone, i primi nomi che ni vengono in mente. Ma l’elenco è molto lungo».
Qual è il segreto del vostro successo?
«Potrei risponderle con una battuta di Garinei: “Se ci fosse un segreto non glielo direi”, soprattutto in un’intervista…».