Un uomo sventola la nuova bandiera siriana nella piazza degli Omayyadi a Damasco - ANSA
«Benvenuta, benvenuta». Il giovane miliziano – che dice di chiamarsi Nader – congiunge le mani e piega il capo per rafforzare il concetto. La sua faccia esageratamente sorridente è la seconda immagine-simbolo del dopo-Assad. La prima, paradossalmente, è quella del volto serio e marziale del dittatore che si staglia sull’arco di entrata di Jdaidit Yabwus, la porta della Siria dal Libano. È tra le pochissime scampate alla furia distruttrice dei ribelli che si sono accaniti con sistematicità sulle onnipresenti gigantografie dell’ormai esule Bashar e del padre Hafez. Brandelli del ritratto di quest’ultimo spuntano accanto a quel che resta della dogana. Gli uffici sono sprangati. E il gabbiotto per il controllo dei documenti è un cumulo di macerie.
Al suo posto, c’è Nader, in divisa semi-militare e Kalashnikov d’ordinanza. Respinge con un cenno i passaporti che i passeggeri gli porgono: non saprebbe che farne. Timbri e procedure di entrata sono stati azzerati l’8 dicembre. In attesa che qualcuno all’interno della galassia degli insorti imprima una direzione al “nuovo corso”, il miliziano si limita, dunque, a un saluto cerimonioso prima di tornare dai compagni. Nessuno di loro ha gradi e mostrine. È la barba folta ma corta e curata a rivelare l’appartenenza a Hayat Tahrir al-Sham (Hts), la formazione islamista nata da una scissione del fronte jihadista al-Nusra. I “barboni” dell’epoca qaedista sono stati accorciati e le tuniche tradizionali sostituite con pantaloni e bluse verde oliva per segnalare il cambio di passo. Almeno estetico. Per il resto, si vedrà.
Alcuni giovani si fanno un selfie vicino alla nuova bandiera siriana, dopo la caduta del regime di Assad - Reuters
Seguo ogni giorno quanto sta avvenendo in Siria,
in questo momento così delicato della sua storia Auspico che si raggiunga una soluzione politica che, senza altri conflitti né divisioni, promuova responsabilmente la stabilità e l’unità del Paese. Prego, per intercessione della Vergine Maria, che il popolo siriano possa vivere in pace
e sicurezza nella sua amata terra, e le diverse religioni possano camminare insieme nell’amicizia e nel rispetto reciproco per il bene di quella Nazione, afflitta da tanti anni di guerra
Papa Francesco
Udienza generale, 11 dicembre 2024
Nour, 17 anni, occhi neri brillanti e ovale perfetto incorniciato dal velo azzurro, è ottimista. Dopo dieci anni, potrà finalmente riabbracciare gli zii che vivono in un sobborgo a est di Damasco. È entusiasta al pensiero di vedere in carne ed ossa quanti ha conosciuto solo via WhatsApp. Mostra quasi incredula il timbro appena stampato sul documento dall’incaricato di sorvegliare il flusso a Masdaa, la caotica porta d’uscita dal Libano. I siriani che vogliono rientrare in patria vi arrivano a piedi, in bus, in moto, qualcuno in auto. Tutti scendono, poi e, dopo il controllo formale, si inoltrano nella terra di mezzo fra le due nazioni trascinando pacchi, valigie, semplici sacchetti di plastica, taniche di benzina, introvabile dall’altra parte. I più carichi ricorrono al “tik tok”: le apecar rivestite con un telo di plastica, costretta a procedere a zig zag tra i tappetini per la preghiera serale e i bivacchi.
A Jdaidit Yabws, il buio ingoia colori e forme. Nour avanza spedita al fianco della madre: «No, il nostro non è un ritorno definitivo. Vogliamo prima renderci conto della situazione. La fine del regime, però, è già una buona notizia». Walid pensa l’esatto contrario ma lo dice a voce bassissima, come un sussurro.
ANSA
«Ma quale trasformazione. Parlavamo in sordina prima e lo facciamo tuttora. C’è paura, tanta paura. Siamo passati dalle spie di Assad alle spie dei jihadisti. Almeno con Bashar c’era ordine. Ora è un caos». Insieme alla vicina, questo insegnante di geografia di 42 anni ha deciso di lasciare il villaggio situato tra Homs e Hama e partire. In Libano, però, è solo di passaggio: ha in tasca un biglietto per gli Emirati, per questo lo lasciano passare. Gli altri – diverse centinaia – vengono bloccati e si accampano nei dintorni fra carcasse di carri armati e auto, abbandonati nella fuga dell’esercito del regime. Il loro numero aumenta man mano che si procede lungo la “Highway 30” che collega il confine a Damasco, distanti una cinquantina di chilometri. Di tanto in tanto, raffiche di mitra squarciano il silenzio notturno. «Niente paura, sono le celebrazioni», dice Bilal. Vanno avanti, al tramonto, da quattro giorni. Ieri sera, però, la prima senza coprifuoco, la festa è stata speciale come si vede dalla folla sulla “Mazzah Highway”, la strada di accesso alla capitale. Giovani e giovanissimi, famiglie con bambini, camminavano a passo svelto, sventolando la “bandiera della rivoluzione” – verde con tre stelle, come i principali distretti siriani – affissa ovunque e venduta dagli ambulanti ai semafori, incredibilmente funzionanti.
Nella centralissima piazza Umaya, la folla ballava e cantava arrampicata su un blindato. Una famiglia bruciava una pila di foto del dittatore. «Ha fatto scomparire mio fratello. Era uno studente universitario, l’hanno portato via e chiuso nel carcere di Sedaya. Non è più tornato – conclude Mour –. Dicono che i ribelli sono jihadisti. Non credo che potremo stare peggio di come stavamo. Non funzionava niente. Nemmeno i telefoni. Per connetterlo a Internet dovevi pagare per corrompere un funzionario». La rete continua ad andare a singhiozzo. Ma nell’euforia collettiva che le cadute delle dittature sanguinarie sprigionano, i dettagli passano in secondo piano. La Siria vive il suo sogno di futuro. Nella speranza che il risveglio non sia troppo brusco.