giovedì 21 marzo 2024
Il termine dispregiativo viene usato contro le migranti latinoamericane che lottano contro l'esclusione sociale in Usa e in Spagna
«Dal Messico alla Spagna, la mia voce per le “panchitas”»

REUTERS

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«Per me andare via dal Messico significava fuggire dalla violenza che avrebbe finito per distruggere la mia famiglia, ma in Spagna ci aspettava un altro tipo di violenza, meno visibile ma altrettanto crudele: pretendere lealtà mentre ti fanno a pezzettini perché non sei come loro». La ragazza non ha nome. Perché è una ma è anche tutte. Tutte le “panchitas” – termine dispregiativo impiegato in Spagna per indicare le “indie” ovvero le migranti latinoamericane – che gli europei e gli statunitensi non vogliono vedere né soprattutto ascoltare. Brenda Navarro restituisce loro voce. «Una voce potente come solo quella della letteratura può essere. Ci sono splendidi saggi e reportage sulle migrazioni e le ingiustizie subite dalle persone nel tragitto e nei Paesi di destinazione. Sono storie terribili. Troppo. Così restano a una distanza rassicurante delle vite delle persone del Nord del mondo. Volevo costringerle ad avvicinarsi. E potevo farlo solo con un romanzo perché la parola letteraria crea empatia», spiega l’autrice. È nato così Cenere in bocca (La Nuova Frontiera, pagine 192, euro 17,90), la seconda opera dopo Case vuote della scrittrice messicana trapiantata a Madrid. «Ho sposato uno spagnolo. La mia, dunque, è stata una migrazione privilegiata», racconta. Non come la protagonista di Cenere in bocca, arrivata dall’altra parte dell’Atlantico con il fratello minore Diego per ricongiungersi alla madre, partita nove anni prima per mantenere i figli. È lei, in un monologo ininterrotto, a narrare lo sradicamento, le perdite e soprattutto il senso di estraneità che perseguita i migranti in Europa. Fino al tragico epilogo – con cui si apre il racconto -: la morte di Diego che si lancia dall’appartamento al quinto piano. «Ci asfissiava, Madrid, perché per anni la mamma ci aveva detto che sarebbe stato un sogno e non era riuscita a mantenere quella falsa promessa: niente sogno, niente agiatezza, niente; semmai io mi sentivo un po’ più povera che in Messico; semmai più isolata e più malvista. Se in Messico potevano dirci che eravamo poveri, e lo eravamo, eravamo in buona compagnia; a Madrid invece ci guardavano come poveri e anche come appestati. Diversi da loro. Non sono di qui».

La vicenda della protagonista non riflette direttamente la sua esperienza. Come è riuscita a renderla con tale forza?

Cenere in bocca non è un romanzo autobiografico. L’ispirazione viene da una notizia che ho letto: il suicidio di un giovane della zona sud di Madrid, quella dove vivono in genere i migranti. La storia mi è rimasta dentro, continuavo a pensarci. Ho cominciato a interessarmi alla questione, a parlare con tanti latinoamericani e tanti spagnoli. Mi ha colpito il modo con cui questi ultimi descrivono i migranti. Non con cattiveria. C’è, però, una sorta di cultura incosciente dell’alterità, la “otridad” in castigliano. Sono altro da loro. Esistono in funzione degli anziani e dei bimbi di cui dovevano prendersi cura. Al di là di questo, non possono avere esigenze, desideri, aspirazioni. Ho, dunque, capito che dovevo scriverne.

Per quale ragione?

Perché è giunto il tempo che gli europei e gli statunitensi ascoltino la voce dei migranti. Tendano l’orecchio a nuovi modi di stare al mondo. Troppo lungo si sono posti come il paradigma dell’essere umano e della cultura. Questo non fa bene, a loro per primi. Si cresce nello scambio a partire appunto dal mettersi in ascolto della versione dell’altro. La cultura della violenza, dell’abuso, dello sfruttamento – in una parola, dell’ “otridad” - si nutre del silenzio.

Per quale ragione?

Quel che non si nomina non esiste nel dibattito pubblico. Quando si nomina comincia ad esistere. Il controllo delle migrazioni è un grande business Le economie di Europa e Usa hanno necessità di chi arriva ma, per massimizzare i profitti, hanno anche necessità che queste persone siano prive di diritti civili e politici. Affinché la società tolleri l’ingiustizia è necessario che non le consideri come propri simili bensì le pensi come “altre”. E l’estraneo è sempre un nemico che vuole toglierti qualcosa. La contemporanea crisi del Welfare nei Paesi di destinazione rende il tutto più facile. Svelare questo meccanismo perverso – non solo dal punto di vista razionale bensì emotivo - è il primo passo per spezzarlo.

Come fare?

Solo quando la “panchita” inizia ad essere una persona in carne ed ossa, con una storia, un carattere, un dolore, un sogno, si comincia a rompere il circolo vizioso della cultura dell’alterità incosciente. Per questo ho costruito una protagonista nella cui storia tutti potessero identificarsi. Una ragazza migrante con una storia di dolore ma non di abuso estremo come, purtroppo, tante ce ne sono.

Come migrante, pur privilegiata, si è mai sentita “altra”?

Quando sono venuta in Spagna, gli amici mi attribuivano delle caratteristiche che non mi appartenevano. Piccoli stereotipi, come il dare per scontato che, in quanto messicana, mi piacesse il cibo piccante. Ovviamente i l disagio è minimo e io ho gli strumenti per farvi fronte, la maggioranza dei migranti no.

È interessante la descrizione dei rapporti che la protagonista instaura con le anziane – in particolare una, Laura – che le sono affidate. Prova amore e odio…

Tutti i rapporti in cui c’è una dimensione affettiva, implicano una lotta di potere. La cultura dell’alterità silenzia questa complessità. Chi assume una badante la spersonalizza, trasformandola in una funzione. Ne ho intervistato molte per cercare di ricostruire le relazioni tra chi si prende cura e chi viene curato. E sempre ho trovato una dimensione di affetto, per quanto spesso non espressa.

Che cosa significa “Cenere in bocca”?

La sofferenza e il lutto hanno sempre a che fare con lo stomaco. Non a caso si dice “digerire” un dolore. La mia protagonista compie un lungo processo di digestione che la porta, alla fine, a cominciare a sentirsi parte del nuovo mondo in cui vive. Ma ripeto: per riuscirci deve avere il coraggio di dare nome alle proprie ferite. Quel che non si nomina non esiste, ma fa male.

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