Un'immagine dell'allestimento di "Icônes" a Punta della Dogana, con opere di Rudolph Stingel e Danh Vo - Marco Cappelletti - Punta della Dogana - Pinault Collection
Icona, iconico: sono termini che proliferano da tempo nel linguaggio e i cui significati possono essere ricondotti a due aree semantiche: esemplarità e corrispettivo di un valore verbale. Per quanto possano apparire diverse, entrambe sono riconducibili al prototipo greco e cristiano, di immagine, somiglianza e di densità “logica”. Il viaggio dall’icona sacra a quella secolare (per quanto “di culto”) è lungo, ma non irreversibile. Lo compie la mostra “Icônes” (alla francese) a Punta della Dogana. A cura di Emma Lavigne e Bruno Racine, è forse una delle più belle tra le mostre realizzate attraverso la rilettura della collezione Pinault. Si tratta di un viaggio alle radici e ritorno al presente sul tema dell’icona. «Una mostra che si vuole contemplativa», come ha affermato Bruno Racine, sopra la quale aleggia l’aura di Andrej Tarkovskij, e un omaggio a Venezia, città che attraverso l’icona ha saputo costruire il ruolo di ponte tra occidente latino e mondo bizantino.
Si tratta dunque di una esplorazione dei valori che “spirituale” e persino “sacro” possono assumere nell’arte contemporanea. La scansione, molto pausata, struttura la mostra in una serie di “cappelle” che nelle intenzioni dei curatori interrompono il flusso soverchiante dell’«era della saturazione delle immagini e della loro appropriazione indebita». Gli artisti sono i più vari. Si va da Josef Albers a James Lee Byars, Francesco Lo Savio, Sherrie Levine, Agnes Martin. David Hammons, Paulo Nazareth, Theaster Gates, On Kawara, Michel Parmentier, Philippe Parreno, Robert Ryman, Michel Parmentier, Chen Zhen… Un concetto spaziale di Fontana (ma è discutibile la scelta della retroilluminazione) e il superbo Ttéia 1, C, architettura impalbabile e mutevole di fili d’oro e di luce, aprono il percorso. La prospettiva orientale è testimoniata dalle tensioni implicite di Tea in the field di Lee Ufan. L’allestimento del Cube di Punta della Dogana costruisce una sorta di sancta sanctorum tra Christmas (Rome), 2012 di Danh Vo e le grandi superfici dorate di Rudolf Stingel, tutti lavori basati su impronte e tracce, ossia su una forma radicale di presenza. E poi la ricostruzione della cappella ottagonale (struttura quanto mai simbolica) in cui Roman Opałka aveva collocato sette dei suoi Détail, scrittura del corpo del tempo nell’alveo dell’infinito. Il percorso si conclude con La nona ora di Maurizio Cattelan e la gabbia iridescente di Kimsooja nel Torrino.
Per Lavigne e Racine «la mostra intende rivelare l’essenza dell’icona come vettore del passaggio verso una possibile trascendenza, invitando ad altri stati di coscienza, contemplazione, meditazione, raccoglimento». Quale sarebbe dunque “l’essenza dell’icona”? Nella tradizione era un luogo di manifestazione, uno schermo capace di rendere sensibile la presenza della realtà ultraterrena. Nell’icona, teologicamente, il cuore è la figura, ossia i corpi e la storia – per quanto stilizzati, così da suggerire che la loro visione sia sub specie aeternitatis. Qui l’essenza dell’icona sembra piuttosto slittare verso una presenza che resiste, sì, ma è impredicabile. Il faccia a faccia dell’icona si è convertito nello specchio paolino. C’è un arretramento dell’immagine fino alla scomparsa, e di contro un avanzare del fondo.
È un processo non dissimile da quanto accade in Rothko, nel cui percorso si assiste alla rimozione del soggetto in primo piano per esplorare il potenziale delle strutture cromatiche pulsanti del fondo. La luce costituiva la promessa dell’icona, lo spazio finale e permanente, simmetrico a quello terrestre temporaneo e transeunte, e del quale però il corpo glorioso in primo piano costituiva la vera prova. La luce non cancella l’immagine ma, inglobandola e così sottraendola allo sguardo, ne diventa l’ombra, l’impronta, forse l’emanazione. È l’unica soluzione possibile nell’ubriacatura panottica e idolatrica dell’impero della visibilità, come lo chiama Marie-José Mondzain? L’ultimo spazio rimasto disponibile al sacro per tornare a essere percepito sta nel suo arretramento?
L’esito, paradossale a stretto rigore logico, è che la riflessione sopra «l’immagine – la sua capacità di rappresentare una presenza, tra apparizione e sparizione, ombra e luce, e di generare un’emozione» finisce per privilegiare opere “aniconiche”. Mondzain ha parlato di dimensione kenotica dell’arte, ossia lo svuotamento, la scomparsa. La filosofa francese firma un saggio in catalogo (Marsilio), in cui scrive che «la questione dell’icona si trova sulla soglia di un’area la cui apparizione quasi spettrale non ha nulla di irreale. E su questo bordo impercettibile gli artisti si mettono e ci mettono alla prova con l’invisibile e la sua potente vitalità».
C’è anche un altro aspetto molto interessante. Mentre solitamente nelle mostre si assiste a una rimozione o al depotenziamento dell’elemento spirituale o religioso delle opere, “Icônes” procede per moto contrario, riconoscendo – più che attribuendo – valore spirituale a lavori che nel pensiero originale dell’autore è difficile individuare. È il caso, ad esempio, dell’opera di Donald Judd (1991), che presenta quattro scatole in corten, il cui fondo è dipinto di giallo, fissate a parete. Lo sguardo dei curatori, e con loro il nostro, si sposta però sul vuoto interstiziale tra i cubi, che disegna una croce. È una lettura lecita? Certamente è problematica: difficile pensare un’arte più “materialista” del minimalismo americano, per il quale le cose sono cose. D’altra parte è da tempo acquisito che l’opera non si esaurisce nelle intenzioni dell’autore ma si autogenera nello sguardo, completandosi in modo ogni volta diverso nello spettatore. Certo, il rischio di forzature e “annessionismo” persiste. Ma questa mostra non teme di percorrere la cresta affilata su cui l’arte apre uno spiraglio delle porte regali.