È l’ultimo grande "maestro" di una generazione di scrittori che ha segnato profondamente il corso della letteratura italiana degli ultimi sessant’anni. Parliamo di Manlio Cancogni, scrittore quasi per caso, per come racconta la sua lunga vita, che ora raggiunge il traguardo dei novantatré anni, compiuti in questi giorni, sempre in continuo movimento tra la Viareggio in cui è cresciuto, Roma, a Firenze negli anni della guerra, in compagnia di Romano Bilenchi e un sodalizio con Carlo Cassola, una tappa a Milano alla fine degli anni Cinquanta e lunghi soggiorni in America, negli anni Settanta, nel Massachussetts, luogo da lui molto amato: «Dove si stava noi era tutto una foresta fino al confine con il Canada. In quella zona c’è un punto che è sede di un osservatorio, che sarà un’altura di circa seicento metri. Da questo belvedere si può osservare una distesa di boschi che, specialmente in autunno, è uno spettacolo unico per i colori delle foglie, gialle, arancioni, in certi punti scarlatte. Una cosa straordinaria: per un raggio di circa cinquanta chilometri non vedi un’abitazione. Ci sono, ma non si vedono, perché sono coperte dalla vegetazione». Festeggia questo compleanno con un nuovo libro, anche se da anni non scrive più, dopo un periodo molto intenso tra la metà degli anni Ottanta e gli anni Novanta che hanno segnato per lui una 'nuova giovinezza' narrativa con romanzi quali Lettere a Manhattan , Matelda, Il Mister e Sposi a Manhattan . Dice: «In questi libri si può parlare, sia pure vagamente, di una ispirazione cristiana». Sono anche gli anni in cui si dedica ancora attivamente al lavoro di giornalista: «Nel 1998 ho avuto una udienza col Papa. In seguito a questa udienza, mi fu poi proposto di collaborare all’Osservatore Romano. Ho collaborato scrivendo cinquanta o sessanta articoli di terza pagina e ho finito la mia collaborazione giornalistica nel 2001». Poi gli eventi lo portano a decidere di mettere la parola 'fine' sulla sua attività: «Nel 2002-2003 mi venne una depressione tremenda, per la quale non potetti fare niente per tre anni, con scarso rimpianto per quello che avrei potuto fare. Poi, quando mi è passata la depressione, mi è anche passata la voglia di scrivere. E, dunque, è finita la mia carriera di giornalista e di scrittore». Anche se le pagine dei giornali, le antologie e anche qualche libro passato, hanno custodito la memoria di un lavoro sommerso, di un genere letterario che a Cancogni è sempre stato a cuore, quello del racconto: «Per ciò che mi riguarda, appartengo alla generazione di scrittori, ora scomparsa, che vedeva nel racconto (parlo degli anni Venti e Trenta) un mezzo di espressione più intenso e spontaneo del romanzo, più vicino alla poesia». Negli anni Trenta pubblica molto sulle riviste che incoraggiavano questa 'vocazione', da Solaria , a Letteratura, dal Frontespizio alla Ruota. Ora, a cura di Simone Caltabellotta, la casa editrice Elliot manda in libreria a giorni La sorpresa (pagine 408, euro 19.50), una scelta tra i molti racconti scritti tra il 1936 e il 1993. Per lo scrittore «l’idea di raccogliere in un libro racconti vecchi e più recenti spero che sia un invito verso quello che considero il più naturale, e allo stesso tempo più difficile, genere letterario». I racconti degli anni Trenta e Quaranta guardano all’esempio del Joyce di Gente di Dublino e perseguono una sorta di 'poetica', condivisa con Cassola, che portava ad indagare «il senso del mistero dell’essere nel mondo». E aggiunge: «Personalmente non pensavo che dovesse essere tanto 'oggetto' di letteratura, quanto che questo stupore della realtà fosse esso stesso letteratura, che questo sentimento costituisse anzi la cosa più importante della vita». Ritroviamo qui le pagine di un giovane scrittore che lavora sul 'sublimine': «Per me aveva due facce: da un lato quella, esaltante, dell’illuminazione improvvisa, dall’altro una, invece, terrorizzante. Era esattamente questo che volevo dire in quei primi racconti: il sentirsi improvvisamente un essere vivente nel mondo, e anzi il senso stesso di esistere tra le cose». Già allora emerge questa dimensione di un fondamento religioso, anche se intuito in una forma strettamente laica, un religioso che ritorna nell’ultimo periodo. Del resto per Cancogni l’arte del racconto, nel Novecento, viene portata a compimento estremo da tre scrittori, tutti americani, dove la tradizione delle short stories è molto più radicata anche tra i lettori che non in Italia: «Direi assolutamente Carver, poi Flannery O’Connor, che secondo me è superiore nei racconti che non nei testi lunghi, e poi Cheever». È scettico Cancogni oggi: se negli anni Trenta accettava la tesi di Bo della «letteratura come vita» e impegno totale, oggi non riesce a immaginare «in base a che e perché si debba scrivere». E spiega: «I miei ultimi romanzi sono nati da una ispirazione religiosa, altro oggi non riesco a vedere: non si può parlare più di una letteratura impegnata, engagé , alla Sartre, oggi, è inverosimile. Per quale religione laica ci si batterebbe? Cosa può ispirare ideologicamente uno scrittore oggi? Nulla, non c’è assolutamente niente. Lo stile di per sé non può essere sufficiente». Lo tengano a mente i molti scrittori 'finti' che sgomitano a tutto spiano per prendersi i premi più blasonati. E non solo loro.