Il regista Federico Fellini sul set del film “Amarcord” nel 1973 - / Epa Photo/Epa/Blue Box Toys
Per Federico Fellini, nato a Rimini il 20 gennaio 1920, in una provincia dove il cinema si ammirava, ma non si praticava, esso era ancora un’arte nuova. Capì che era fatta dalla luce: «Pittura, ancor prima di essere letteratura o drammaturgia »: un’arte “mista”, nella fusione sonora, che tendeva all’“opera totale”. Attraverso quell’arte nuova, sarebbe diventato l’artista più completo del Novecento, il più profetico. Inseguendo l’estro inesauribile dell’immaginazione e della mano, Fellini restituisce con ciascuno dei suoi film – da Lo sceicco bianco (1952), I vitelloni (1953), La strada (1954), Il bidone (1955), Le notti di Cabiria (1957), alla svolta epocale di La dolce vita (1959) e Le tentazioni del dottor Antonio (1962), fino a La voce della luna (1990) – una rappresentazione memorabile della storia italiana, e più nel profondo, dell’anima umana.
Attraversa il secolo con le storie che dal mondo contadino si sono volte nella realtà di oggi: ma reinventa di volta in volta uno stile, lancia un genere, trasforma per sempre la cultura dei nostri giorni. Ama il sacro e il religioso, e contemporaneamente l’empio e il grottesco; la magia, l’IChing, Jung, il circo e i clown, Poe e Kafka: l’altrove: il buffonesco nel tragico, e viceversa. A ogni film Fellini cerca se stesso. Proietta la propria crisi in 8 ½ , (1963): lo sprofondamento nella morte, nell’eros e nell’infanzia: la Romagna dionisiaca della nonna, protettrice dei sogni; l’archetipo selvatico di Saraghina sulla riva del mare – rivelazione del tremendum del sesso, come Anita Ekberg lo è del numinoso – anche il sogno di Giulietta degli spiriti (1965), ne è una variante –; mentre Tre passi nel delirio (1968) sperimenta in Poe un moderno clown funebre.
Con Block-notes di un regista (1969) si congeda dal Mastorna e dal suo brivido ultraterreno; prepara il Satyricon (1969), la più psichedelica delle antichità, e il trittico di Roma (1972), Amacord (1973), Il Casanova (1976). Con Roma e Rimini legate da un cordone ombelicale da recidere, un Rubicone da varcare: la Rimini negli anni del fascismo, ricostruita non dai ricordi ma dalla rimembranza di stampo platonico – pur nella dissacrazione, per evitare l’insidia sentimentale –: la dicotomia estate-inverno, il risibile orgoglio-nostalgia degli splendori romani, il rifugio nel cinema Fulgor, la vita dorata del Grand Hôtel, l’apparizione del Rex, la fuga dalla grigia provincia dei Vitelloni. Lì, il più visionario dei registi è anche il più aderente alla verità «per quanto grottesca sia la caricatura ».
Come osserva Calvino: «Fellini mette sempre le divise giuste e il clima psicologico giusto degli anni che rappresenta». Nel Casanova affronta le ombre più profonde. Fellini vi dipinge un mirabile quadro della disfatta dell’Illuminismo alla vigilia della Rivoluzione. «Il ritratto psicologico dell’artista», in preda alla vertigine del vuoto, si fonde con la mediocrità elevata ad eccellenza e con la compulsione sessuale del seduttore per antonomasia. Fellini vi vede se stesso e l’italiano tipico. Ha paura del Pinocchio che non diventa mai uomo, del «baco da seta che si agita … nel suo bozzolo».
Teme la categoria rozza dell’essere collettivo, che ha sperimentato nell’adolescenza: «l’approssimazione, l’indifferenziato, i luoghi comuni, il convenzionale, la facciata». Tuttavia l’ultima abiezione del vecchio Casanova deriso, con il sogno sul ghiaccio, attinge la profondità del pathos tragico. Simenon lo definì il più bell’affresco della storia del cinema, «un tuffo vertiginoso nelle profondità umane».
Fellini ribatté: «Credo che l’arte sia questo, la possibilità di trasformare la sconfitta in vittoria, la tristezza in felicità. L’arte è un miracolo». Prova d’orchestra (1979), La città delle donne (1980), E la nave va (1983), Ginger e Fred (1985), Intervista (1988), La voce della luna (1990) gettano uno sguardo implacabile sul mondo moderno: totalitarismi del Novecen- to, dittatura delle ideologie, degenerazioni dei governi, climax di ordinedisordine, violenza, caos, incubi apocalittici, sessualità grottesca, rimbecillimento, esibizionismo e voyeurismo istituzionalizzato, tecnica incontrollabile, puerilità del pensiero pubblicitario che penetra di sé il pensiero tout court, giovanilismo esasperato, omologazione e confusione generale.
Anche per questo, gli ultimi film di Fellini «rappresentano il culmine dell’arte moderna». Sebbene con l’arte del burattinaio plasmasse i suoi attori, perché non dovevano essere psicologie, ma solo maschere, Fellini era attento come nessun altro alle persone. Possedeva quell’umanità profondissima, che era il tocco della grazia. Anche questo, oggi, è uno dei suoi più grandi doni. Così, anche se La voce della luna si conclude con la voce sguaiata di Aldina, «Pubblicitàaaaa...aaa...aa...», le ultime parole sono del pazzo ragionevole, che chiede soltanto di ascoltare le voci che scendono dalla luna e salgono dai pozzi, di attenderle in silenzio. Forse solo nell’attesa silente, nei giochi lievi che Fellini ha prediletto, ci sarà la possibilità di capire qualcosa, o forse essi saranno la domanda elusa, l’unica risposta.