venerdì 7 gennaio 2011
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«Fatta l’Italia dobbiamo fare gli italiani» si disse nel lon­tano 1861. E quella frase storica, in questo 2011 che celebra il centocinquantesimo dell’Unità d’Ita­lia, la sentiremo ripetere molte volte. Ma con cosa si «possono fare gli ita­liani»?Il musicologo Paolo Prato una tesi ce l’ha: «Con la musica». E spiega perché Giuseppe Verdi e Laura Pausi­ni, l’autore de La donna è mobile e la cantante de La solitudine, «hanno aiu­tato lombardi e siciliani a sentirsi un unico popolo attraverso una forma comune di espressione e comunicazione come la musica, capace di farsi ar­te e al tempo stesso stru­mento di riscatto sociale». Prato lo racconta nelle quasi cinquecento pagine di La musica italiana. Una storia sociale dall’Unità a oggi, volume edito da Don­zelli (euro 33). Parte dal Va’ pensiero e arriva sino a X Factor per dire che «prima ancora che nell’impresa di Garibaldi gli italiani hanno trovato un comune denominatore nella cantabilità della musica italiana, presente in Verdi ma anche nella canzone del Novecento. Una cantabilità che è diventata il no­stro marchio di fabbrica. Che tutto il mondo ci riconosce ascoltando le me­lodie di Puccini o la voce di Andrea Bocelli». Il suo è un lungo viaggio «per rilegge­re in chiave sociale la storia d’Italia, dove la musica ha sempre interagito con l’economia e la politica».Prato, docente alla Pontificia università Gre­goriana di Roma, già direttore di Ra­dio InBlu e autore di programmi di Tv2000, è convinto che «gli italiani si sono sempre raccolti intorno a pro­getti con al centro la musica: nell’Ot­tocento era il melodramma oggi i ta­lent show o eventi come il Festival di Sanremo che resta tra i primi cinque programmi televisivi più seguiti. E che quest’anno vedrà Al Bano cantare pro­prio il Va’ pensiero nella serata per i 150 anni dell’Unità d’Italia». E proprio il coro di Verdi e ’O sole mio sono sta­ti preferiti alle più 'politiche' Bella ciao e Giovinezza. «Segno che ancora una volta la musica divide, rivelando chiaramente la natura profonda del­la musica, per nulla innocente».Oggi la tv, ieri la radio e il grammofo­no. Ai tempi di Garibaldi Nabucco, con il passare degli anni le Mille bolle blu di Mina e Il ragazzo della via Gluck di Celentano, le Emozioni di Lucio Bat­tisti e il Viva l’Italia di De Gregori. Perché in 150 anni molte cose sono cambiate, anche nella musica. «Nel tempo – spiega Prato –, esaurita la for­tunata stagione di Verdi e Puccini, si è creata una distanza tra la musica 'col­ta' e il pubblico, in particolare quando si è deciso di spingere sul pe­dale della sperimentazione. Uno scol­lamento che resiste e che viene col­mato dalla canzone o solo da alcuni artisti particolari». Ma anche da forme d’arte come il can­to sociale che «ha aiutato i vari movi­menti contadini e operai a farsi forza, a trovare uno spirito unitario» rac­conta Prato che rintraccia anche ne­gli inni liturgici un percorso di co­struzione della nostra identità. «Pen­so alla musica di Lorenzo Perosi, ai canti del dopo Concilio scritti in ita­liano e alla cosiddetta Messa beat, che hanno raccolto quelle istanze di maggior comunicabilità della fede già presenti nel po­polo».A 'fare gli italiani' dunque è stata la musica 'più della po­litica'. Possibile? «Sì, perché l’arte delle note aiuta a capire alcuni meccanismi della vita sociale, ad esempio le istanze degli ultimi, delle quali la po­litica sembra disinteressarsi». Un ruolo che non è esaurito, allora. «Oggi la musica è dappertutto. Diffu­sa dagli altoparlanti o confinata nel­l’iPod. Ma il rischio è che resti solo un passatempo, facendo da sottofondo alla vita senza aiutare l’uomo a rifor­mulare le grandi domande sull’esi­stenza. Perché ciò avvenga serve, però, che la musica sia presa sul serio, non solo consumata, ma capita a fondo nei suoi meccanismi. E per fare que­sto occorre che non sia ai margini del nostro sistema formativo, come acca­de purtroppo oggi in Italia».
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