Non era per il gusto della polemica, né Samuel Huntington amava nuotare controcorrente. Eppure il politologo più noto e discusso d’America, che si è spento mercoledì sera all’età di 81 anni nella sua casa nell’isola di Marthàs Vineyard in Massachusetts, raramente si è trovato schierato con l’establishment intellettuale Usa. Anche se con quel gruppo da 58 anni lavorava e ne era un ingranaggio. Seppur il più celebre. Laureato a Yale ad appena 18 anni, a 23 era già in cattedra ad Harvard, dipartimento di Scienze politiche. Aveva abbandonato per limiti d’età l’insegnamento nel 2007, non certo lo studio. Per i detrattori era un neoconservatore, etichetta che nel post 11 settembre ha assunto le sembianze di un «insulto» in molti ambienti culturali e politici Usa. In fondo era cresciuto con molti dei precursori del movimento neocon: da Irving Kristol a Norman Podhoretz, da Daniel Bell a Nathan Glazer, anch’egli docente ad Harvard. Ne aveva assorbito parecchie idee, come la convinzione che la civiltà occidentale dovesse basarsi sulla forza della morale più che sulle armi o il potere economico. Ma Huntington non è mai stato un «entusiasta» della cosiddetta esportazione della democrazia. Né tanto meno credeva che i valori americani fossero universali e che si potessero imporre alle altre culture. La visione messianica degli Stati Uniti come nazione guida del mondo che diffonde i diritti umani e la libertà non era per lui determinante. Tanto che in un’intervista con David Gergen alla Pbs, nel 1997, ammise che «la nostra capacità di favorire i cambiamenti nelle altre società è in declino». Era sempre stato un democratico, assicurava la moglie Nancy. Nel 1968 guidò lo staff di politica estera del candidato alla presidenza Hubert Humphrey. Il suo migliore amico dell’epoca, Warren Manshel, era schierato con Nixon. I due discutevano spesso da fronti opposti. Ma questo non impedì loro di fondare il bimestrale Foreign Policy, che Huntington diresse fino al 1977. La sua produzione letteraria è sterminata: 19 libri, quasi un centinaio di saggi scientifici pubblicati in decine di lingue. Eppure oggi Huntington è l’uomo dello scontro delle civiltà, il teorico dell’anti-globablizzazione. Il pensatore che negli anni ’90, mentre il mondo clintoniano si ubriacava dell’illusione che i commerci e il potere egemonico Usa avrebbero messo la parola fine alle contrapposizioni mondiali, intravedeva un altro pericolo: quello della crescita smodata dell’islam, sospinto da una cultura che negava i valori fondanti dell’Occidente e che poteva contare sul boom demografico per poter imporre la sua visione alternativa. Ma gli anni ’90 erano quelli di Fukuyama, dell’ottimismo della fine della storia, della dissoluzione delle ideologie. E in fondo Huntington in quel decennio di entusiasmo per la “ primacy americana” predicava nel deserto. La contrapposizione fra Huntington e Fukuyama divenne leggendaria. Anche se in realtà i due non erano proprio così distanti. Nel 2006, quando alcuni conservatori e neocon lasciarono la rivista The National Interest per fondare la più moderata e realista The American Interest, Fukuyama e Huntington si trovarono insieme a spingere la nuova creatura. Addirittura nel 2003, sull’onda della guerra in Iraq, la rivista The American Conservative criticò Huntington e altri intellettuali di area conservatrice poiché «sostengono una politica estera troppo attenta alla sensibilità e alle culture delle altre nazioni». Alla base del suo pensiero, che non ha mai mutato né rinnegato, c’è però lo scontro di civiltà. Huntington sostenne, prima nel saggio su Foreign Affairs del 1993 e poi nel libro del 1996 ( The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order), che i conflitti nel mondo contemporaneo non erano legati alle ideologie o al dominio economico. Piuttosto erano scontri fra culture diverse che non potevano armonizzarsi proprio in virtù di queste intrinseche diversità. Per Huntington gli Stati nazione altro non sono che fenomeni visibili che incarnano un conflitto più viscerale e profondo: quello fra culture contrapposte. E nel saggio il politologo indicava le sei civiltà destinate a fronteggiarsi. Due però lo insospettivano: quella cinese e appunto l’islam, che vedeva come portatore di una cultura inconciliabile con l’Occidente. Anche se non per questo da contrastare con gli strumenti dell’imperialismo e della forza. Tesi, quella dello scontro di civiltà, balzata agli onori della cronaca nel post 11 settembre, in un mondo svegliatosi di soprassalto dall’ubriacatura dell’ottimismo dell’era clintoniana. Fouad Ajami, intellettuale americano d’origine libanese che fu tra i più accesi contestatori nel 1993 di Huntington, un anno fa scrisse sul New York Times: «E se avesse ragione Samuel Huntington?».