venerdì 7 aprile 2017
"Le storie raccontate devono essere analisi del presente"
La regista Holland con il premio ricevuto al festival del cinema europeo a Lecce

La regista Holland con il premio ricevuto al festival del cinema europeo a Lecce

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«Noi dei Paesi dell’Europa dell’Est dobbiamo rimanere uniti, altrimenti ci ritroveremo ad essere i burattini di Putin, così come la Siria, dove tutto quello che succede dipende dalla Russia». Non usa giri di parole, schietta e politicamente battagliera come nei suoi film, la regista polacca Agnieszka Holland, classe 1948, una che ha iniziato la sua carriera come assistente del grande Andrzej Wajda sotto il regime sovietico. Una carriera che è stata premiata l’altro ieri con l’Ulivo d’oro al Festival del Cinema Europeo di Lecce, dove la regista ha presentato in anteprima italiana il suo Spoor, un thriller prodotto da Krzysztof Zanussi premiato all’ultimo Festival di Berlino. In questi giorni in cui il dibattito sul fronte orientale torna a farsi acceso, fra l’attentato di San Pietroburgo, la crisi fra Russia e Ucraina e i terribili attacchi con i gas in Siria, la regista rivendica il ruolo dei registi come voce indipendente, nel cinema ma soprattutto, ed è questa la sorpresa, nella televisione.

Signora Holland, i riflettori sono di nuovo puntati sui Paesi dell’Europa dell’Est. Quale il loro ruolo nei confronti della
Russia?

«Non dobbiamo permettere alla Russia di imporre il suo imperialismo e totalitarismo, altrimenti sarà Putin a decidere il destino di tutti, come ai tempi di Brežnev. Putin è un uomo molto ambizioso, ma ha successo anche nel supportare persone come il presidente Usa Donald Trump e Marie Le Pen in Francia, e gli altri partiti nazionalisti dell’Europa Orientale. Ambisce a separare e a creare debolezza: se non c’è democrazia, può avere un maggiore controllo».

Lei pensa di continuare il suo impegno politico attraverso il cinema?

«Ho nel cassetto tre progetti. Quello più vicino alla realizzazione è Il ciarlatano sul socialismo reale nella Cecoslovacchia degli anni 50. Ma non sono una nostalgica, quando giro un film sul passato ci sono già i germi del presente. Spoor che è un mix bizzarro di diversi generi come thriller, commedia e poliziesco, è diventato inconsapevolmente un film politico perché parla delle divisioni, tuttora attuali, della società all’indomani della Seconda guerra mondiale».

Una lezione imparata dai suoi mentori Wajda e Zanussi?

«Wajda, per me amico, produttore e modello, è come un pianeta: non puoi immaginare il cinema polacco, ma anche la storia e la cultura della Polonia senza i suoi film. Ma ha anche avuto un enorme successo mondiale nel tradurre alcune esperienze polacche in un linguaggio universale. Zanussi è più intellettuale e ha una voce più internazionale. Al contrario di Wajda è molto religioso, ma ha vedute molto più ampie di quanto la gente pensi».

Come si può raccontare la storia attuale?

«Questo è un periodo molto pericoloso, con eventi che cambiano a grandissima velocità e che non riusciamo a comprendere. Abbiamo accolto con ottimismo infantile la caduta dei muri 30 anni fa ma la pigrizia della borghesia e della politica non ha saputo dare risposte ai bisogni reali della gente. Da qui il sorprendente successo dei partiti nazionalisti e populisti: affrontano i problemi, dando delle risposte false a cui la gente crede. La crisi è acuita dalla globalizzazione, che ha tolto il potere agli Stati per darli alle multinazionali rendendo i cittadini delle vittime e dalla rivoluzione informatica che non ha mantenuto le sue promesse di portare una nuova democrazia. Su questo si innescano le paure della gente nei confronti dei profughi e dell’Islam».

E il tema dei migranti? Il cinema è in grado di raccontarlo?

«È facile mostrare in un film la sofferenza, l’odio, la paura restando a un livello superficiale, come un ornamento: noi del cinema puntiamo più sull’empatia che sulle risposte. Dovremmo trovare nuove formule. Mentre i governi dell’Occidente dovrebbero prendersi le loro responsabilità. E in tutta questa confusione c’è una reale minaccia del fallimento dell’Europa».

Lei si è avvicinata alla televisione negli ultimi anni dirigendo episodi per serie Usa importanti come The Wire e House of cards. Come mai?

«Negli anni 90 è stata spazzato via quel cinema che parlava di temi reali e sociali ma affrontati con amore e in modo accessibile al pubblico. Sono rimasti solo gli estremi, o i film d’autore troppo complessi o i blockbuster. Questo vuoto è stato riempito dalla tv, a partire dalla Hbo e ora Netflix e Amazon, con produzioni innovative, che proponevano nuovi temi e una nuova narrativa, non banale o commerciale. E, se trovare fondi per fare cinema di qualità è sempre più difficile, in televisione ho trovato la mia dimensione. Ad esempio nella serie The Wire, ho potuto esprimere il mio punto di vista politico sulla società americana e sono riuscita ad affrontare una dimensione etica e una complessità che oggi dà solo la serialità televisiva e non più il cinema. Il pubblico ha fame di questi argomenti».

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