Brie, France, 1968 (© Henri Cartier-Bresson_ Magnum Photos) - ©Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos
Un uomo tiene il suo bimbo ben dritto su una sola mano, come fosse un trofeo, sotto lo sguardo sorridente della mamma. Il ragazzino, divertito e fiero, domina la scena, nella vastità della campagna armena e del lago Sevan. È una foto datata 1972. Di qualche mese dopo è uno scatto a Napoli di due innamorati che si affacciano da una terrazza che dà sulla ferrovia. Immaginano forse il loro futuro lontano, di prendere un treno per andare via come tanti altri a quel tempo dal Sud Italia. O forse no, e sono solo lì per una sosta. Ma è un abbraccio che dà anima a quelle linee ferrate, ai treni e ai fumi che si vedono all’orizzonte.
Il fotografo francese Henri Cartier-Bresson (1908-2004) mette l’uomo al centro dei suoi paesaggi. La terra esiste perché c’è qualcuno che la abita e la rende viva. E le dà un senso. E anche quando non c’è, è come se ci fosse. Perché c’è di certo l’occhio del fotografo. «Le fotografie di Henri Cartier-Bresson – scrive Erik Orsenna in Paysages (Delpire, 2001) – salutano le “cose reali” tra cui, né dominatori né protagonisti, effimeri e fragili, gli esseri umani. Abitanti del grande teatro. Che amavano credersi creatori della scena a patto di non richiamarli, dolcemente ma fermamente, alla modestia. Così sono i paesaggi: echi dell’interminabile dialogo tra l’essere e il fare, tra l’uomo che vuole lasciare un segno e la terra che la sua pelle non offre che la superficie».
Al Forte di Bard, nella maestosità del castello medievale, nella mostra Landscapes (a cura di Andréa Holzherr, realizzata in collaborazione con Magnum Photos International e Fondation Henri Cartier-Bresson di Parigi; fino al 21 ottobre) scorrono oltre 100 immagini in bianco e nero del maestro del «momento decisivo», per fare il giro del mondo e riflettere sull’uomo, sulla sua quotidianità nell’istante che il fotografo osserva, là dove il gesto si compie. Con occhio attento e rigoroso, ma anche con un carico di ironia come quando fotografa i due bagnanti sul lago di Zurigo con due anatre, o i due maiali in un recinto, pronti alla fuga, neanche fossero i protagonisti della Fattoria degli animali di George Orwell, o un operaio sotto un macigno che da un momento all’altro sembra possa piombargli addosso.
E poi ci sono le geometrie, come nella sequenza di scie nella neve, di tracce di pneumatici sul terreno o i tronchi galleggianti sul fiume. Il tutto fra scatti celebri come il salto sulla pozzanghera a Place de l’Europa a Parigi (1932) e altri meno conosciuti, realizzati fra gli anni Trenta e gli anni Novanta, fra Europa, Asia e America (un focus sull’essenza della società statunitense lo si potrà ammirare in particolare al Lucca Center of Contemporary Art fino all’11 novembre nella mostra curata da Maurizio Vanni, Henri Cartier-Bresson. In America). «Cartier Bresson – ha affermato il poeta e saggista Gérard Macé – è riuscito a fare entrare nello spazio ristretto dell’immagine fotografica il mondo immenso del paesaggio, rispettando i tre principi fondamentali che compongono la sua personale geometria: la molteplicità dei piani, l’armonia delle proporzioni e la ricerca di equilibrio». Con l’uomo che entra in scena, lasciando «la sua piccola persona per raccontare la storia della specie, i suoi sogni, i suoi smarrimenti ». L’uomo, il paesaggio e il senso della fotografia per chi ha guadagnato l’appellativo di «occhio del secolo».
Place de l'Europe, Gare Saint Lazare, Paris, 1932 (© Henri Cartier-Bresson _Magnum Photos) - ©Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos