mercoledì 4 marzo 2009
Il filosofo davanti alla questione antropologica: «La pretesa delle scienze naturali di capire l’uomo si è rivelata fragile, invece resta attuale la meraviglia di Pascal o Agostino: l’essere umano è il problema per eccellenza»
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La questione antropologica si è posta al centro del pensiero del nostro tempo. Ciò ha delle ra­gioni molto profonde. Se cerchiamo di cogliere il carattere peculiare del pensiero compreso tra il diciottesi­mo secolo e l’inizio del ventesimo, esso ci appare dominato da due strutture: quella meccanicistica del­le scienze della natura e quella u­manistica delle scienze dello spirito. Pur nella loro diversità di fondo, le due modalità di pensiero avevano un elemento comune: erano sicure di se stesse e convinte di conoscere profondamente la realtà del mondo e dell’uomo. Naturalmente ciò non era del tutto vero. Ovunque, sia die­tro le affermazioni teoriche che die­tro il comportamento pratico, era al­l’azione lo scetticismo. Tutti i pen­sieri e le prese di posizione minac­ciavano prima o poi di dissolversi nel relativismo. Eppure si ammetteva, per consenso generale, che esistes­se un’immagine certa dell’esistente, nella quale anche l’uomo aveva il suo posto. Nella prospettiva delle scienze natu­rali l’uomo era una parte della natu­ra; una parte altamente differenzia­ta, certo, ma pur sempre natura. Che cosa fosse la natura sembrava fon­damentalmente chiaro, per quanto i singoli problemi fossero ben lungi dall’essere esauriti. La natura era, ap­punto, l’elemento naturale, l’ovvio punto di partenza per chiarire an­che il problema dell’uomo. Anche la prospettiva umanistica, delle scien­ze dello spirito, prendeva le mosse da una sfera il cui senso e il cui valo­re apparivano evidenti, vale a dire la cultura. E anche qui l’uomo era de­terminato univocamente: egli era il prodotto della cultura, la creava e al tempo stesso ne veniva plasmato [...]. Vi era poi una terza via del pensiero e del sentimento della vita, la quale, per impiegare un concetto di Nietz­sche, potrebbe essere definita era­clitea: mi riferisco qui a certi ele­menti dello Sturm und Drang e a de­terminati livelli di lettura dello stes­so Goethe. Ma vanno ricordati an­che Hölderlin e la modalità di com­prensione dell’antichità che è stata introdotta da Creuzer, Welcker e Ba­chofen e che non era solo una teoria scientifica, ma esprimeva un atteg­giamento dell’animo [...]. La conce­zione meccanicistica delle scienze naturali e quella umanistica delle scienze dello spirito presuppongo­no che l’esserci sia in qualche modo compiuto. Esse sottolineano in ma­niera costante il momento della realtà, che considerano come già for­mata. Per entrambe le concezioni il compito dell’uomo è conoscere que­sta realtà, trovare la propria reale col­locazione all’interno di essa e modi­ficare se stesso in modo da adattar­si al suo ordine. Le possibilità (del­l’uomo) sono fondamentalmente note; sconosciuta è solo la misura in cui si potrà realizzarle. L’altro senti­mento dell’esserci invece percepisce il mondo e l’uomo come realtà in lar­ga misura potenziali. Se per le prime l’aspetto decisivo è il dato osservabile e studiabile, per il secondo è la pos­sibilità di addentrarsi nell’ignoto. U­L na possibilità però che è affidata al­l’uomo stesso. L’esserci è aperto alla determinazione plastica e creativa. È significativo che a ciò sia connesso un forte impulso pedagogico – e con ciò si intende formativo, non mera­mente dottrinale. Anzi, il concetto di pedagogico sembra non essere suf­ficiente a definire tale impulso, al punto che ci si chiede che cosa sia in gioco qui, se non si tratti forse di u­na nuova specie umana o addirittu­ra di un oltrepassamento dell’uomo nel sovrumano – e con ciò della tra­sformazione della sostanza stessa dell’uomo [...]. L’uomo si costituisce nella sua indi­pendenza di fronte a tutto ciò che gli si presenta come una richiesta asso­luta, vale a dire di fronte a Dio, alla rivelazione e all’autorità divina; egli lo può fare mettendo in risalto i mo­menti assoluti che custodisce in sé stesso, i quali si condensano nella pretesa di assolutezza della propria personalità spirituale. Al tempo stes­so però emerge anche un’altra ten­denza: (quella a) considerare auto­sufficienti l’essere non assoluto e la finitezza dell’uomo, e a determinar­si soltanto in funzione di tali istan­ze. Finché l’assoluto è per così dire l’unico schema in grado di fondare l’esigenza di un esserci autosuffi­ciente, l’uomo moderno fa di tutto per costituire se stesso come assolu­to. Lo sviluppo di un immediato sen­timento dell’esserci e della corri­spondente modalità di pensiero con­ferisce alla finitezza in quanto tale un’intensità del tutto nuova e un’i­nedita capacità di conferimento di senso. Arriva così un momento in cui la richiesta di assoluto viene a cade­re e la finitezza, pur se transitoria e limitata, sembra poter far scaturire da sé la totalità. Questa volontà di fi­nitezza e autosufficienza si con­giunge poi con una nuova apertura verso le potenzialità della vita. L’a­nelito dell’uomo si distoglie dall’as­soluto e rivolge tutto il suo fervore al finito – nella convinzione che, se lo si affronta con una passione esclu­siva, possano emergere da esso ine­sauribili possibilità. (La dottrina di Nietzsche dell’eterno ritorno dell’u­guale in connessione con la com­parsa del superuomo). In questo modo la volontà pedagogica ottiene una nuova intensità; potremmo qua­si dire che essa si eleva al rango di demiurgo [...]. Da molto tempo prestiamo orecchio – e non di rado con una grande fi­ducia nella sua verità – alla dottrina dell’inconoscibilità di Dio. Tale dot­trina intende affermare qualcosa di ben diverso dal vecchio motto «I­gnoramus et ignorabimus». Que­st’ultimo non sapere si sentiva ap­pagato; l’altro invece è pieno di in­quietudine. È un non sapere che na­sce dalla commozione religiosa; è un’espressione di meraviglia, e in quanto tale è feconda per la cono­scenza. Anche dell’inconoscibilità dell’uomo si può parlare in un sen­so analogo e a partire da un simile vissuto. La pretesa delle scienze na­turali di conoscere l’uomo si è rive­lata altrettanto fragile di quella del­l’umanesimo e delle scienze della cultura. Infinitamente più adeguata dell’apparente sicurezza di queste discipline è invece la meraviglia di un Agostino o di un Pascal, per i qua­li l’uomo è il problema per eccellen­za. Il nucleo più autentico della ri­proposizione della questione antro­pologica sta in un sincero non sape­re che cosa sia l’uomo, e nella con­seguente apertura verso ogni valida risposta. Charlie Chaplin in una celebre foto di scena del film «Tempi moderni» (1936)
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