giovedì 21 maggio 2015
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Le iniziative culturali occasionate da anniversari e ricorrenze non hanno in genere ricadute esterne all’obbligato circuito cerimoniale. In felice controtendenza invece la mostra che si inaugura domani, venerdì 22 maggio, alla Farnesina, su «L’Italia e la diplomazia della Grande Guerra » (catalogo a cura e con introduzione di Italo Garzia, Gangemi editore). Articolata in tre sezioni, sulla diplomazia e il principio di naziona-lità, la propaganda, e la pace, curate rispettivamente da Rita De Palma, Federica Onelli e Ersilia Fabbricatore, la mostra presenta un ampio spettro di documenti, dagli autografi dei protagonisti, ai cifrati segreti, alle proiezioni politico-geografiche delle aspirazioni e degli obiettivi italiani tutt’altro che chiari, a volte anzi contraddittori, che scoprono una realtà oscurata in quei duri anni di guerra, aggrovigliata poi nel clima delle roventi polemiche post belliche intessute di violenze e rancori interni e internazionali. A dare idea efficace di un ventaglio di situazioni politico-sociali assai poco note è in particolare la sezione della propaganda curata dalla Onelli.  L’argomento, che potrebbe apparire scontato, documenta piuttosto scenari ambigui, preoccupanti. Delle articolazioni interne, verso i paesi nemici, neutrali, e alleati, è propria quest’ultima infatti quella maggiormente potenziata; circostanza invero singolare: che propaganda c’era da fare verso gli alleati? La spiegazione è offerta, in apertura, da un importante rapporto del 15 maggio 1916 inoltrato dal segretario generale del Ministero degli Esteri, Giacomo De Martino, al ministro Sonnino, sui rischi dell’'isolamento' dell’Italia.  Già, perché la dichiarazione di guerra all’Austria dell’anno precedente, non era stata seguita da quella agli Stati alleati dell’Austria. Fu già una pantomima quella presentata il 20 agosto ’15 all’Impero ottomano, senza una motivazione logica, cercando capziosamente pretesti; obbedimmo alle insistenze e agli interessi dei franco-inglesi allora alle prese con la vana forzatura dei Dardanelli, ma avvertendo che alla dichiarazione di guerra noi non avremmo fatto seguire la guerra. Quella alla Germania poi, l’avremmo dichiarata solo il 28 agosto del ’16. «Siamo dalla parte del torto di fronte agli alleati», aveva scritto Di Martino a Sonnino. Gli alleati, dalla coscienza a loro volta tutt’altro che pulita, ci avevano isolati. L’Italia era apparsa al solito egoista e infida, conduceva una guerra per proprio conto e tornaconto; rimaneva così esposta al rancore degli ex alleati della Triplice, senza guadagnare fiducia, tanto meno stima, dai nuovi alleati dell’Intesa. Dunque la propaganda; e tra mille difficoltà. Si dovette, ad esempio, ricordare financo di far esporre la bandiera italiana in occasione di cerimonie pubbliche che negli Stati Uniti vedevano sventolare solo quelle degli altri alleati; si dovettero stampare manifesti e manifestini celebrativi delle ricorrenze ufficiali anglo-italiane e italo-francesi; si dovette cioè ricordare continuamente agli alleati che eravamo loro alleati! In questo sforzo di accreditamento, la nostra tradizione culturale ebbe il suo peso: le manifestazioni della lirica italiana negli Stati Uniti e quelle teatrali in Inghilterra progressivamente portarono a considerare l’eroismo dei nostri fanti.  Fu un esempio efficace di vera e propria diplomazia culturale che dalla guerra e con la guerra interagì allora per svilupparsi poi appieno nei decenni seguenti. Certo la guida politica della guerra rimase comunque ambigua, ondivaga, trasferendo platealmente le sue incertezze sulle attività di propaganda, in particolare quando, dopo Caporetto, gli eventi militari ripresero il corso sperato, e ci si pose di fronte al problema dell’atteggiamento nei confronti dell’'alleato slavo'. Combattevamo assieme contro l’Austra avendo, per il dopoguerra, progetti diversi e opposti sull’assetto territoriale dell’altra sponda dell’Adriatico. I finanziamenti per la propaganda (provenienti prima da un apposito ma inefficace Ministero della Propaganda, poi da un più dinamico sottosegretariato del Ministero degli Interni) vennero allora divisi salomonicamente tra le due avverse correnti politiche: salveminiana, che propugnava l’alleanza col prossimo regno di Jugoslavia, e quella opposta, irredentista, sonniniana, di egemonia nazionale e nazionalista nella regione. Insomma la vittoria mutilata, e Wilson e Fiume e D’Annunzio (di cui è riportato l’autografo del volantino lanciato su Vienna) emergono già, nella loro prossima virulenza, da tutto questo nuovo (oggi diremmo mediatico) materiale documentario.
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