Il serbo Nikola Jokic, 27 anni, miglior giocatore dell'ultima stagione Nba con i Denver Nuggets
Dici “basket” e il pensiero corre subito al di là dell’Oceano. Negli Stati Uniti, lì dove questo sport è nato. Qui nel lontano inverno del 1891 un professore di educazione fisica, James Naismith, alzò la prima palla a due della storia. Il campo era l’aula magna dello Springdield College e i primi rudimentali canestri erano due ceste di vimini di quelli usati per le pesche. Quando la palla entrava dentro si usava una scala per andare a riprenderla. Da allora i maestri americani ci hanno insegnato tutto quello che con la palla a spicchi ci si può inventare: passaggi mirabolanti, assist dietro la schiena, schiacciate irreali. Acrobazie che hanno fatto innamorare generazioni di appassionati e l’acronimo Nba anche in Italia dagli anni Ottanta in poi è diventato sinonimo di spettacolo, giocate da imitare al campetto ma anche uno stile alla moda, con canotte e gadget rigorosamente “ enbiei”… Eppure quei marziani che ci facevano sognare in Tv non sono più irraggiungibili e la distanza oceanica dai blasonati parquet statunitensi è sempre più ridotta. Oggi il basket Nba è un sogno alla portata anche dei cestisti non a stelle e strisce. Lo dicono i numeri della “colonia” straniera nel massimo campionato statunitense: nell’ultima stagione ben 109, un giocatore su quattro.
A conferma di un trend ormai stabile per l’ottavo anno consecutivo gli stranieri hanno superato quota 100. Un abisso rispetto ai 5 delle origini (nel 1946-1947). Il primo in assoluto a debuttare fu Hank Biasatti che era nato nel nostro Paese ma cresciuto in Canada. Ma il tricolore è arrivato comunque in Nba già nel 1995 con i pionieri Vincenzo Esposito e Stefano Rusconi e ormai sventola stabilmente dal 2006 grazie ai vari Andrea Bargnani, Marco Belinelli, Danilo Gallinari, Luigi Datome, Nicolò Melli, Nico Mannion e l’ultimo dei nati in Italia Simone Fontecchio che quest’anno giocherà con gli Utah Jazz. La Nba non è più una chimera da almeno trent’anni. C’è un evento spartiacque nel processo di globalizzazione che ha investito la lega dei sogni americana: le Olimpiadi del 1992. Fu allora che gli Stati Uniti si convinsero di mandare ai Giochi una squadra di professionisti e non più di collegiali. Scottati dal fallimento di Seul 1988, a Barcellona scese in campo il mitico “Dream Team” con tutte le stelle dell’epoca da Micheal Jordan a Larry Bird e Magic Johnson. Per loro si trattò alla fine di una passeggiata perché dominarono il torneo con 43,8 punti di scarto medio, tra le lacrime di gioia degli avversari a cui non pareva vero di sfidare i loro idoli.
Ma fu quella rassegna che spinse molti europei a credere di poter competere con i giganti Usa. E così negli anni Novanta arrivarono a frotte, soprattutto dall’ex Jugoslavia. Sulle orme di Vlade Divac e Drazen Petrovic che segnarono la strada già alla fine degli anni Ottanta, negli States sbarcarono tanti altri talenti come Toni Kukoc e Dino Radja. A illuminare un torneo di stelle negli anni sempre più esotico, che ha visto brillare il canadese Steve Nash o l’argentino Manu Ginobili. Il Vecchio Continente si è fatto ancora onore con campioni del calibro del francese Tony Parker e dello spagnolo Pau Gasol senza contare il tedesco Dirk Nowitzki, il primo europeo a essere stato eletto miglior giocatore (Mvp) della stagione regolare nel 2006-2007. E proprio guardando l’albo d’oro di questo riconoscimento si può comprendere come oggi gli europei non recitino affatto un ruolo da comprimari ma siano sempre più protagonisti. È dal 2018 che l’Mvp non è più un giocatore statunitense. Nelle ultime quattro stagioni a trionfare sono stati il greco di origini nigeriane Giannis Antetokounmpo dei Milwaukee Bucks e il serbo Nikola Jokic dei Denver Nuggets, che ha vinto anche quest’anno dopo l’exploit del 2021. Entrambi raggiungono a quota due il fenomeno made in Usa Stephen Curry, trascinatore dei Golden State Warriors campioni in carica di una Nba che ormai non parla più solo inglese.