Forte rilancio negli investimenti uguale riduzione del personale. Una formula che rappresenta un nonsenso per qualsiasi azienda normale, ma non per il calcio italiano, che da tempo - o forse da sempre - azienda normale non è. Nell’estate dei milioni che ricominciano a piovere sul mercato italiano reduce da anni di siccità, ecco stamparsi a lettere sempre più grandi le parole sovrannumero, esubero, disoccupazione. Il pallone dello Stivale sta sommando due addendi, uno normativo e uno prettamente economico, i risultati sono più di uno, ma quello che forse sarà il detonatore della crisi, delle polemiche e forse delle battaglie legali prossime venture sarà quello occupazionale. I due addendi non sono altro che l’entrata in vigore della recente norma federale sul contingentamento degli organici e la consueta morìa di club professionistici tra Serie B e Lega Pro, che conta già ben 10 vittime, il cadavere eccellente Parma e altri nove club che hanno fallito l’iscrizione alla terza divisione. Dieci squadre fuori dal football “pro” uguale 200 giocatori circa da ricollocare: ai quali si dovranno aggiungere, inediti e intempestivi, altri 70-80 prestigiosi colleghi, provenienti per direttissima dalla Serie A. Dove, appunto, le 20 partecipanti dovranno allestire una lista ufficiale di non più di 25 calciatori, 8 dei quali tra l’altro vincolati a uno status di formazione calcistica avvenuta all’interno del nostro territorio. È una vera e propria bomba per sodalizi che, per eccessiva frenesia negli ingaggi e nella stipulazione di contratti di lunga durata, sono ormai arrivati ad avere rose pletoriche, abbondantemente sopra le 30 unità. Un “check” effettuato tramite il sito tedesco Transfermarkt, aggiornata e autorevole banca dati su calciatori e trasferimenti, assesta a 565 il numero degli elementi ufficialmente facenti parte degli organici delle prime squadre d’Italia: moltiplicando 20 società per 25 giocatori, capiamo che già ora lo spread tra ammissibili e candidati è a +65, e questo con ancora davanti oltre 40 giorni di possibili, anzi, sicuri arrivi dall’estero o da altre leghe nazionali. Dando uno scorcio al dettaglio, si nota come solo tre club, in questo momento, galleggino prima della boa dei fatidici 25 e sono le due neopromosse Bologna e Carpi (non casualmente, da due stagioni la Serie B ha adottato la politica dei tetti degli impiegabili e dei salari) e il solito, oculato Empoli. Il record di opulenza è a Udine, dove sono ancora in 33, ma almeno i Pozzo, alla malaparata, hanno gli sfiatatoi delle squadre che posseggono all’estero, lo spagnolo Granada e l’inglese Watford: molto più critica la situazione di Inter e Chievo, che contano ancora 32 unità, di Lazio e Atalanta (31), di Sampdoria e Palermo (30), di Milan e Roma (29). Tutte squadre che sono ancora notevolmente attive sul mercato in entrata, e sentono dunque squillare sempre più forte il segnale di allarme sulle cessioni. O si riescono a piazzare i calciatori in eccedenza, oppure saranno guai sia dal punto di vista economico che, forse, da quello legale: assurdo, infatti, che una regola scritta in una logica di spending review provochi il pagamento di un regolare - e spesso profumato - salario a un atleta che non si potrà utilizzare in nessun caso; e inoltre, come prospettato dalla "Gazzetta dello Sport", occhio alle mosse dell’Associazione Calciatori e dei singoli neo-esodati del pallone che potrebbero impugnare il loro contratto, perfettamente valido, di fronte a un giudice. "Vendere, vendere, vendere", insomma, e soprattutto all’estero, visto che ben pochi dei pedatori di Serie A in odore di esubero hanno ambizioni e ingaggi concilianti con i piani più bassi del calcio nazionale: e visti i chiari di luna della fiera calciomercato, sarà improbo piazzare pseudo-big quali Shaqiri (Inter), Cerci (Milan), Llorente (Juventus), Gomez (Fiorentina), tutti già fuori dai rispettivi progetti tecnici, ma pure smistare gli “operai” ai margini di Atalanta, Chievo o Palermo - con la B e la Lega Pro incastrate tra problemi di cassa e di norme - non sarà per niente agevole.E allora succede che i dirigenti piangono, i calciatori pure, sorridono sotto i baffi i presidenti e senz’altro espongono il sorriso delle migliori occasioni gli allenatori, che finalmente non dovranno più cimentarsi nelle acrobazie e nei rischi della gestione di gruppi troppo allargati. E sorridono, sicuramente, anche le vecchie glorie, e i residui difensori del calcio che fu, del «prima era meglio»: si torna a rose più identificabili, meno giocatori uguale meno turnover, pratica della quale qualcuno ha troppo abusato, a dispetto di impegni non himalayani. Il Milan 2014-15, escluso dalle competizioni europee, ha disputato 40 partite ufficiali: tra gestione spericolata delle sessioni di mercato, infortuni e fallimenti sul campo è arrivato a schierare qualcosa come 36 giocatori: e viene in mente la Juventus del 1977, «Zoff Gentile Cuccureddu» e tutto il resto, che con 15 dicasi 15 uomini - 8 dei quali nazionali - vinse lo scudetto dopo una lunghissima ed estenuante volata col Torino, la Coppa Uefa (roba estremamente seria ai tempi), contribuì alla qualificazione azzurra ai Mondiali 1978 e fece la sua parte pure in Coppa Italia per un totale di oltre 50 partite. Si correva di meno, era un altro calcio, obiettano i “modernisti”: sarà vero. Ma è anche vero che tutti, evidentemente, ragionavano di più. A cominciare da chi dirigeva la navicella pallone.