L'attore Giuseppe Pambieri
Battute folgoranti e dialoghi serrati per un ritorno sul palcoscenico, dopo il lockdown, con un testo moderno, profondo, destinato a sorprendere il pubblico: colpi di scena e capovolgimenti di fronte a dipanare un filo drammatico che ha lo scopo, nelle intenzioni del regista Moni Ovadia, «di rendere lo spettatore testimone di ciò che è terrificante nell’umano e proporgli una possibilità di redenzione». Giuseppe Pambieri è, con Carlo Greco, il protagonista di Nota stonata, del francese Didier Caron, una storia che richiama il “violino della Shoah”, ambientata nei primi anni ’90 nel camerino di un direttore d’orchestra «importunato» con insistenza da un misterioso e invadente fan, interpretato proprio da Pambieri. La prima nazionale è per domani (ore 21.30) al 54° Festival di Borgio Verezzi.
«L’andamento della piéce è da thriller, anche se il morto non c’è – spiega Pambieri –, si sente l’angoscia che monta piano piano e poi... ci sono tre finali diversi, ma di più non posso dire, per non rovinare la sorpresa a chi verrà a vederlo». Per un attore come lui, che in 55 anni di carriera i generi teatrali li ha attraversati tutti, dal drammatico al brillante, dai classici greci al suo amato Shakespeare, è un’esperienza nuova. «Ed entusiasmante - aggiunge - Tanto più che affronta un tema di estrema attualità, come quello del razzismo che purtroppo vediamo oggi nel mondo, contro gli ebrei, i neri, i migranti». Pambieri non vede l’ora di ritrovare il rapporto col pubblico dopo il silenzio forzato degli ultimi mesi.
Come ha vissuto il periodo della quarantena?
«A casa, come tutti. Ma non mi ha pesato. E devo dire che non ho dovuto rinunciare ad impegni importanti».
Come vede il futuro del teatro, e della società, dopo la crisi del Coronavirus, dalla quale per altro non siamo ancora usciti? Le attività artistiche sono state quelle più penalizzate.
«Le premesse per una ripresa mi sembrano buone. Bisogna andare avanti. Però teatro e cinema faranno fatica a tornare come prima. Mancano le risorse. Comunque l’importante, per tutti, è che la pandemia finisca e non ritorni più. Non mi piacciono i negazionisti, quelli che minimizzano dicendo “tanto è solo un’influenza” oppure “a noi non ci tocca”. Non è così. I contagi stanno salendo ed è necessario ora che i ragazzi stiano attenti, che pensino anche agli anziani e ai più fragili. Se no è finita».
Pambieri, il teatro è la sua vita. Più di mezzo secolo sui legni del palcoscenico, diretto dai più grandi registi, da Enriquez a Zeffirelli, da Ronconi a Strehler, il suo primo maestro. Ma anche tanta tv negli anni d’oro degli sceneggiati (tra tutti Le sorelle Materassi, nel 1972) e tanto cinema. Ma quando e come si è accorto del “sacro fuoco” che ardeva dentro di lei?
«Da bambino recitavo i monologhi per conto mio. Ma la vocazione dell’attore è venuta fuori in modo evidente da adolescente. Un Natale mi travestì da spazzacamino e bussai alla porta di casa. Mio padre non mi riconobbe e mi diede persino dei soldi. Amavo camuffarmi, cambiare identità.»
Però a 18 anni cominciò a frequentare l’università Cattolica di Milano, facoltà di Giurisprudenza. Era per tenersi una seconda carta da giocare?
«Diedi 7, forse 8 esami. Volevo diventare un criminologo. Ma nel frattempo mi iscrissi anche alla scuola di teatro del Piccolo. La passione per la recitazione ebbe il sopravvento. Fu merito di monsignor Guido Aceti che insegnava sia a via Rovello sia alla Cattolica, a convincermi che questa era la mia strada».
E poi alla scuola del Piccolo lei conobbe sua moglie Lia Tanzi...
«Sì. Era il 1964, io avevo 20 anni e lei 16. Fu una vera... condanna all’amore. Ci sposammo nel 1970, lo stesso anno avemmo Micol. La nostra storia continua ancora, tra alti e bassi, come tutti i rapporti coniugali. Pensi che nel 2000 durante il Giubileo, fummo ricevuti da Giovanni Paolo II per rappresentare, come famiglia, il mondo dello spettacolo. Il Santo Padre ci benedì. Fu un incontro emozionante, che ricordiamo tutti e tre con affetto».
La vostra, allora, è una famiglia tutta casa, chiesa e teatro, visto che sua figlia ha scelto il mestiere dei genitori?
«Be', per me il palcoscenico non è nulla di sacro... fa parte della mia quotidianità come altre cose della mia vita, i miei affetti, il Milan... Diciamo che vivo il teatro con una sensibilità anglosassone. In quanto alla fede... Lia e Micol ne hanno senz’altro più di me. Io spesso ho dei dubbi. Mi chiedo perché Dio permetta certe cose, come l’uccisione dei bambini, per esempio. È faticoso credere».
Lei è lombardo, nato nel borgo del Sacro Monte di Varese, un luogo suggestivo con le cappelle della Via Crucis adornate da statue e affreschi seicenteschi, molto scenografici e teatrali... Hanno influito nella sua vocazione di attore?
«Ma, non credo. I miei erano sfollati dalla città, durante la guerra. Di quel luogo, a cui sono comunque attaccato, ricordo il freddo d’inverno. Poi, da giovane mi sono trasferito a Milano, ho abitato per anni in via Foppa, vicino a Moni Ovadia e a Cochi Ponzoni.... Altri tempi».
Com’è fare l’attore teatrale a 75 anni?
«È meglio. Si è più maturi. Ogni volta che si interpreta un personaggio ci si mette dentro la propria esperienza, gli affanni, i dolori, le gioie provate negli anni. La memoria è più allenata. Certo non è più come a vent’anni quando in tre giorni imparavo un copione... Comunque io ancora non uso gli auricolari con le imbeccate del suggeritore, come fanno altri colleghi della mia età».
Chi, per esempio?
«Ma, lo faceva il grande Tino Carraro negli ultimi anni. Una volta mi capitò di recitare con lui, che era il protagonista del Pericle principe di Tiro di Shakespeare. Passò un aereo e il collegamento degli auricolari all’improvviso andò in tilt. Lui non si ricordava le battute e dovette interrompere. Rimase immobile sul palcoscenico per qualche secondo. Furono attimi di panico. Poi tirò fuori il libretto con il copione che aveva in tasca, si mise gli occhiali, lesse le battute che gli mancavano e uscì come se niente fosse...»