Amos Gitai durante le prove al San Carlo di Napoli
Nato ad Haifa nel 1950 Amos Gitai dopo aver girato una cinquantina di pellicole, aver lavorato a mostre e spettacoli teatrali debutta ora nella regia lirica al Teatro di San Carlo di Napoli con l’Otello di Gioacchino Rossini. Prima stasera, repliche sino al 6 dicembre per il dramma che il musicista di Pesaro scrisse nel 1816 proprio per il San Carlo ispirandosi a Shakespeare. Rossini reinventa molte parti della storia, ma resta il cuore della vicenda con Jago che insinua nell’anima di Otello il sospetto del tradimento di Desdemona. Tre i tenori previsti dalla partitura: John Osborn è Otello, Juan Francisco Gatell è Jago, Dmitry Korchak è Rodrigo. A dar voce a Desdemona Nino Machaidze. Sul podio di orchestra e coro del San Carlo Gabriele Ferro. Scene e costumi dei premi Oscar Dante Ferretti e Gabriella Pescucci. Luci di Jan Kalman. Gitai, figlio di un ebreo tedesco, architetto del Bauhaus, dagli anni Settanta ha raccontato Israele, ma anche i grandi temi dell’attualità. Suoi i film Berlin-Jerusalem, Golem, Kippur, Promise Land sino all’ultimo Rabin the last day.
Amos Gitai si appresta a raccontare «la storia di un ragazzo di colore, bello e prestante, che arriva in Europa dall’Africa e deve fare i conti con una società che non lo accetta». Una vicenda di sradicamento come le tante che il regista cinematografico israeliano, classe 1950, ha portato sul grande schermo. Ma questa volta la storia che Gitai traduce in immagini non è presa dalla cronaca, è quella dell’Otello di Gioacchino Rossini.
Stasera il regista inaugura la nuova stagione lirica del Teatro di San Carlo di Napoli. Sul podio Gabriele Ferro. John Osborn è Otello, Nino Machaidze Desdemona. Il regista di Promise Land e Free zone debutta nella lirica. «Per imparare – spiega – un linguaggio che ancora non conosco. Lo faccio con il mio stile cinematografico raccontando una storia di immigrazione come le tante che quotidianamente vediamo raccontate dai telegiornali».
Amos Gitai, nel suo Otello allora vedremo barconi carichi di migranti e campi profughi?
«Queste immagini che ogni giorno entrano nelle nostre case ci saranno, proiettate su uno schermo. Ho girato personalmente alcuni filmati con immigrati suoi barconi e scorci di terre devastate dalla guerra, quella dalla quale i profughi scappano. Dante Ferretti, invece, ha immaginato la pancia di una nave per il primo atto e interni di palazzi veneziani per i due successivi. Atmosfere senza tempo perché al di là di una collocazione temporale dell’azione mi interessa provare a ricreare uno stato d’animo, una sensazione, per far vivere allo spettatore gli stessi sentimenti dei protagonisti. Rossini lo fa con la musica, io con le immagini».
Cosa vedremo, allora, sul palco?
«Frammenti di vita, oggetti, immagini, disegni, fotografie che messi insieme potranno aiutare a ricostruire la memoria, qualcosa che spesso viene dimenticata e ferita. Un mosaico che si completerà solo quando il sipario sarà calato e quando lo spettatore sarà chiamato, con gli elementi che noi offriamo, a farsi un’idea a dare la propria interpretazione della vicenda. Penso sia fondamentale per il pubblico avere un ruolo attivo e non essere solo consumatore passivo del lavoro di noi artisti. Nell’opera come al cinema. E se la cultura non fa questo non ha senso».
La vicenda di Otello, che Rossini ha preso da Shakespeare, aiuta perché, appunto, parla di immigrazione, ma anche di violenza sulle donne.
«Il debutto di Otello fu nel 1816 proprio qui a Napoli. Studiando la partitura mi è subito piaciuto l’approccio audace e coraggioso messo in campo dal compositore che ha provato a dire in musica qualcosa di nuovo. Mettere in scena oggi Otello significa seguire questa lezione. Proverò a farlo leggendo la vicenda del Moro di Venezia nel contesto attuale della immigrazione che dall’Africa porta centinaia di migliaia di persone verso l’Europa. Otello è il migrante, la civiltà europea di ieri e di oggi è incarnata da Jago e da Rodrigo, gelosi del successo del Moro in campo militare, ma anche in quello amoroso, per aver conquistato Desdemona, la donna ambita da tutti. Qualcosa che porterà alla tragedia finale. Viene un brivido vedendo che da allora nulla è cambiato e che l’Europa, anche dopo duecento anni, fatichi a prendersi le proprie responsabilità nei confronti di chi bussa alla nostra porta».
Il tema dell’esilio, dello sradicamento dalla propria terra torna nei suoi film. Come legge gli avvenimenti di questi anni? Come la politica può e deve intervenire?
«Storia e politica si intrecciano senza fine. La storia si ripete. Noi artisti siamo chiamati a lottare per la sopravvivenza di una memoria che i fatti direbbero perduta. Una battaglia nella speranza che così facendo la memoria scavi dentro ognuno di noi, nel tunnel dei nostri cuori e delle nostre menti per cambiarle. L’arte deve indicare una strada. Prendiamo Shakespeare che ha un’incredibile capacità di raccontare i rapporti umani, mettendo in scena vicende di un passato che diventano, però, attuali per chi le legge o le vede in palcoscenico. Il suo teatro ha un forte valore politico nel momento in cui i drammi del passato, storie che potrebbero apparire semplici e banali, si proiettano sul nostro presente e sul futuro per dirci qualcosa di noi. Anche per questo nel mio recente Rabinho voluto inserire l’orazione funebre di Marco Antonio dal suo Giulio Cesare».
Come arriva il suo debutto nella lirica?
«Quando la sovrintendente del San Carlo Rosanna Purchia mi ha proposto di fare Otello di Rossini ho pensato che avrei preso la cosa molto seriamente, nel pieno rispetto del genere che mi trovavo ad affrontare e dell’autore, ma ho anche pensato che non a- vrebbe avuto senso se non avessi fatto passare in questa vicenda la mia interpretazione, il mio modo di guardare il mondo. Quello della lirica è un mondo che conoscevo un po’ superficialmente e per questo negli ultimi mesi ho cercato di vedere spettacoli a Salisburgo, New York e Parigi. Ora vedremo se sono riuscito a mettere in atto quello che ho imparato. Sono fiducioso perché ho un’ottima squadra e la lirica, così come il cinema, è un lavoro di gruppo».