Il “Processo alla tappa” nacque da una delusione: quella che, ancora bambini, si provava a ogni passaggio del Giro. Allora le scolaresche venivano portate a vedere i corridori che transitavano sulla Via Emilia. Quando la carovana era tutta passata e in fondo alla strada spariva anche l’ultimo sidecar con tre energumeni a bordo, occhialoni gialli e spolverino bianco – agitavano una bandiera rossa per avvertire che dietro non c’era più nessuno – si restava in silenzio, incapaci di andarsene. Possibile che non vi fosse più nulla da aspettare, da vedere, da gridare? Che tutto fosse finito in un lampo? Scomparsa la corsa in un fulgore di sole, di metalli e di polvere, ci riversavamo sulla strada. I cani, usciti a loro volta dai fossi, si univano al confuso disperdersi della gente: era proprio finita, si poteva andar via, incontro a una solitudine malinconica e goffa. In quell’Italia ancora contadina la bicicletta era soprattutto lavoro, faccende da sbrigare, scampagnate, giri con la morosa. Nelle case c’era la radio, gli eventi erano sempre lontani, invisibili. «L’ha detto la radio», si diceva fiduciosi. L’arrivo dopo una tappa di montagna con pioggia o neve sembrava la telefoto di un disastro; furono immagini come quelle, diafane e drammatiche, a rendere epico il ciclismo. Io vivevo in Romagna, il regno della bicicletta, una piccola Cina che pedala dalla mattina alla sera. Ma quando “passava” il Giro tutto avveniva in un attimo. La tappa, liscia come un biliardo, a Rimini dunque ospitava ogni volta il cosiddetto “trasferimento”: tutti in gruppo, un balenio di maglie, la carovana pubblicitaria, i grandi tubi di dentifricio distesi sul tetto delle automobili, berrettini e caramelle che volavano dappertutto, con nugoli di bambini che si contendevano le prede ai bordi della strada. Chissà dov’era la maglia rosa. Così, arrivato a Roma, e ormai in pianta stabile alla RAI, chiesi di seguire il Giro. Avrei trovato tutto quello che non avevo mai potuto vedere. Il trespolo che ospitava il “Processo” era malfermo come il linguaggio, in genere, di chi vi saliva per partecipare a quelle, anch’esse traballanti, sedute. Ciascuno vi portava la propria origine umana, sociale, scolastica. Lungo i muri si leggeva «viva Coppi Fausto», il cognome prima del nome, come all’anagrafe, in caserma, nelle bollette, sulla porta, e soprattutto a scuola. I gregari disponevano di poche parole, ma le ordinavano con una bellissima fantasia. Poi, pian piano, crebbero insieme al Paese, non lasciarono più la croce al posto della firma, sui fogli di partenza. Quella croce, non di rado, se la portavano addosso per tutto il tempo del Giro. La civiltà industriale, crescendo, non prendeva più i pedalatori solo dai campi, ma anche dalle botteghe, dall’artigianato, dalle fabbriche. I corridori erano diventati, da contadini, operai. Ed era già una grande mutazione. Le squadre ebbero condizioni contrattuali più garantite, i corridori più tutele, anche sindacali. Le bici, nel frattempo, perdevano qualche chilo, Campagnolo aveva inventato il cambio, le strade erano asfaltate, e poi i calendari meno massacranti, gli atleti mangiavano e si curavano meglio. Erano comparsi i medici e sparivano, via via, le fattucchiere. Ma arrivava, subdolo, adescante, rovinoso il doping. La simpamina faceva largo ai miscugli, agli alambicchi, alle pratiche inconfessabili. Il “Processo” privilegiava le piccole storie, ciò che di vivo, inascoltato, invisibile rimaneva nel ventre della corsa. Liberava vicende umane altrimenti destinate a rimanere sconosciute. Senza bigottismi, enfasi, pedagogie: bastava lasciar emergere ciò che la tappa, ogni giorno, aveva da dire in un altro modo, al di fuori del lato soltanto tecnico. La fuga di Lievore - 183 chilometri con un altro corridore davanti, e quindi per arrivare solo secondo - serviva a dire, ad esempio, che la vita non è fatta solo per primeggiare, ma per battersi, contentandosi di arrivare secondi, terzi, quarti… Il Giro era pieno anche di metafore. Introducemmo una sorta di moviola e il radio-microfono, improvvisammo il tele-prompter, i duplex, i triplex, e via così, facendo ricorso a ogni diavoleria tecnologica. Il "processo" voleva darsi un linguaggio moderno per rappresentare, in fin dei conti, sentimenti antichi. Dietro quel modo di raccontare lo sport c’era un’intenzione, persino una pretesa, culturale. Fu, comunque, un esperimento felice. Nessuno ha mai censito l’ascolto del “Processo” nei bar, che avrebbe portato l’audience a sette, otto milioni di persone pressoché quotidiani. Fu mediaticamente un evento, al Giro lo si poteva concedere. Va ringraziata la Tv. Per evitare l’assenteismo c’erano imprenditori che, all’ora del “Processo, mettevano i televisori a disposizione dei dipendenti. Nessun sindacato al mondo avrebbe ottenuto tanto. Il Giro, insomma, nonostante le magagne dei nuovi andazzi non solo ciclistici, rimaneva, ed è ancora oggi, la metafora di un Paese che ha voglia di riconoscersi nella sua identità di popolo e di nazione; cioè in una storia comune, che comprende luoghi, case, paesi, monumenti, beni artistici, tradizioni, costumi, culture. Rivelando tutto questo in un modo esemplare, per tanti versi ineguagliabile. Oggi, visto dagli elicotteri, il paesaggio è spesso martoriato, e infelice. E noi, sotto, ad aspettare che tutto diventi più intelligente e umano. Mi piacerebbe che qualcuno ci mostrasse dall’alto un Giro senza biciclette, per raccontare, una tantum, come il panorama non sia più, qua e là, lo stesso. E perché.