L’idea che bambini e ragazzi non siano una categoria sindacale come i metalmeccanici o i postelegrafonici ma parte integrante della comunità e quindi strettamente connessi ai loro genitori e ai loro educatori, non sfiora la mente di chi crede alle virtù taumaturgiche di una descrizione pessimistica dell’infanzia e dell’adolescenza. Si moltiplicano le cassandre che vedono nero e gli struzzi che non vogliono vedere. Fatica a farsi sentire la voce di chi invoca fiducia nei giovani, un’informazione meno allarmistica, buoni esempi di adulti capaci di lottare, sognare e progettare. Lucrezio dice che gli uomini si trasmettono la vita come i corridori si passano la fiamma. Quale testimone passiamo ai nostri figli se di loro ci stiamo costruendo un’immagine così desolante e disperata? Oggi c’è dunque bisogno di affiancare all’elenco dei mali le proposte per affrontarli e risolverli senza dimenticare l’elenco dei meriti e della positività di tanti bambini, ragazzi e giovani. C’è soprattutto bisogno di non descrivere un’età della vita, qualunque età, soltanto in termini di presenza o assenza di patologie, trascurando le risorse individuali e collettive da attivare. Di un bambino, appena in grado di camminare, che sfugge ai genitori e attraversa una strada percorsa da auto e moto, non diremo che è coraggioso. Tra tutti i termini che possono venirci in mente, il più idoneo resta proprio «bambino», un essere umano naturalmente incline al movimento e all’esplorazione e non ancora in grado di valutare i rischi dell’ambiente in cui è nato. Non voglio dire che l’essere umano non porti con sé alla nascita paure ancestrali, ma solo che il bambino non ha ancora «preso le misure» del mondo nel quale si è venuto a trovare. Diverso invece è il discorso per le paure, o meglio per le angosce, che portiamo in dote alla nascita, prima tra tutte l’angoscia della separazione. Nella storia della nostra specie i neonati, cresciuti in stretta prossimità dei genitori, hanno avuto maggiori probabilità di sopravvivere alle minacce onnipresenti dei predatori esistenti nel contesto dell’evoluzione umana. La separazione dai genitori suscita angoscia nei bambini, il cui sistema nervoso è dotato di un dispositivo di allarme evolutosi durante l’età della pietra. Il sistema segnala automaticamente la separazione dall’adulto con funzioni genitoriali e il pericolo potenziale. L’attaccamento fa dunque parte della nostra eredità psicologica. I comportamenti di attaccamento hanno assicurato nel remoto passato la protezione contro le minacce ambientali alla sopravvivenza, accrescendo così la probabilità che l’individuo solidamente attaccato potesse vivere abbastanza a lungo da riprodursi. In questo modo, la predisposizione ad allevare i figli si è diffusa in tutto il pool genetico umano. La risposta di angoscia e di sofferenza a una separazione prematura non è caratteristica dei piccoli umani ma è evidente in tutti i primati che l’hanno selezionata come più favorevole alla sopravvivenza. Se la storia fosse tutta qui non si spiegherebbe perché noi siamo come siamo, individui cioè che molto precocemente mettono a repentaglio la sicurezza derivante dallo stare accanto a un adulto protettivo per andare lontano da lui alla ricerca di avventure. Il fatto è che la nostra specie non mira soltanto alla sopravvivenza degli individui, ma anche alla propria sopravvivenza attraverso la riproduzione. E la riproduzione nell’essere umano non si limita alla procreazione di nuovi esemplari della specie. La fertilità umana è anche ricerca e produzione di senso, nostra gioia e nostra pena, nostra libertà e nostra prigionia. Noi, diceva Camus, siamo le sole creature che rifiutano di essere quello che sono. Ogni essere umano, non solo il bambino e il ragazzo, ha bisogno per vivere anche di sogni, di ideali, di avventura, di rischio, per misurarsi con se stesso e cercare di passare in questo mondo lasciando un segno di fertilità, di trasformazione. Entrare in contatto, in dialogo con i giovani non sarà possibile se chi parla ha perduto la capacità di sognare, è privo di ideali, è spento dentro. I giovani non hanno bisogno di un adulto qualsiasi, ma di esempi di coraggio, indipendenza, onestà, fantasia e, perché no?, di utopia. L’utopia è un valore senza il quale la ricerca di soluzioni, le speranze e dunque l’impegno, perdono forza. È su una proposta animata da forte carica utopica che i più anziani possono sperare di trovare un contatto con i più giovani perché, come ricordava Bobbio, l’utopia è la nostra comune giovinezza.