giovedì 16 luglio 2009
Spesso i mass media diffondono un'immagine dei ragazzi soltanto negativa. Tocca agli adulti invece educarli al «coraggio».
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L’idea che bambini e ragazzi non siano una categoria sindacale come i metal­meccanici o i postelegrafonici ma parte integrante della comunità e quindi strettamente connessi ai loro genitori e ai loro educatori, non sfiora la mente di chi crede alle virtù taumaturgiche di una descrizione pessimistica dell’infanzia e dell’ado­lescenza. Si moltiplicano le cassandre che ve­dono nero e gli struzzi che non vo­gliono vedere. Fatica a farsi sentire la voce di chi invoca fiducia nei gio­vani, un’informazione meno allar­mistica, buoni esempi di adulti ca­paci di lottare, sognare e progettare. Lucrezio dice che gli uomini si tra­smettono la vita come i corridori si passano la fiamma. Quale testimo­ne passiamo ai nostri figli se di loro ci stiamo costruendo un’immagine così desolante e disperata? Oggi c’è dunque bisogno di affian­care all’elenco dei mali le proposte per affrontarli e risolverli senza di­menticare l’elenco dei meriti e della positività di tanti bambini, ragazzi e giovani. C’è soprattutto bisogno di non descrivere un’età della vita, qualunque età, soltanto in termini di presenza o assenza di patologie, trascurando le risorse individuali e collettive da attivare. Di un bambino, appena in grado di camminare, che sfugge ai genitori e attraversa una strada percorsa da auto e moto, non diremo che è co­raggioso. Tra tutti i termini che pos­sono venirci in mente, il più idoneo resta proprio «bambino», un essere umano naturalmente incline al mo­vimento e all’esplorazione e non an­cora in grado di valutare i rischi dell’ambiente in cui è nato. Non vo­glio dire che l’essere umano non porti con sé alla nascita paure ance­strali, ma solo che il bambino non ha ancora «preso le misure» del mondo nel quale si è venuto a trova­re. Diverso invece è il discorso per le paure, o meglio per le angosce, che portiamo in dote alla nascita, prima tra tutte l’angoscia della separazio­ne. Nella storia della nostra specie i neonati, cresciuti in stretta prossi­mità dei genitori, hanno avuto mag­giori probabilità di sopravvivere alle minacce onnipresenti dei predatori esistenti nel contesto dell’evoluzio­ne umana. La separazione dai geni­tori suscita angoscia nei bambini, il cui sistema nervoso è dotato di un dispositivo di allarme evolutosi du­rante l’età della pietra. Il sistema se­gnala automaticamente la separa­zione dall’adulto con funzioni geni­toriali e il pericolo potenziale. L’attaccamento fa dunque parte del­la nostra eredità psicologica. I com­portamenti di attaccamento hanno assicurato nel remoto passato la protezione contro le minacce am­bientali alla sopravvivenza, accre­scendo così la probabilità che l’indi­viduo solidamente attaccato potes­se vivere abbastanza a lungo da ri­prodursi. In questo modo, la predi­sposizione ad allevare i figli si è dif­fusa in tutto il pool genetico umano. La risposta di angoscia e di sofferen­za a una separazione prematura non è caratteristica dei piccoli uma­ni ma è evidente in tutti i primati che l’hanno selezionata come più favorevole alla sopravvivenza. Se la storia fosse tutta qui non si spiegherebbe perché noi siamo co­me siamo, individui cioè che molto precocemente mettono a repenta­glio la sicurezza derivante dallo sta­re accanto a un adulto protettivo per andare lontano da lui alla ricer­ca di avventure. Il fatto è che la no­stra specie non mira soltanto alla sopravvivenza degli individui, ma anche alla propria sopravvivenza at­traverso la riproduzione. E la ripro­duzione nell’essere umano non si li­mita alla procreazione di nuovi e­semplari della specie. La fertilità u­mana è anche ricerca e produzione di senso, nostra gioia e nostra pena, nostra libertà e nostra prigionia. Noi, diceva Camus, siamo le sole creature che rifiutano di essere quello che sono. Ogni essere umano, non solo il bambino e il ragazzo, ha bisogno per vivere anche di sogni, di ideali, di avventura, di rischio, per misurar­si con se stesso e cercare di passare in questo mondo la­sciando un segno di fertilità, di trasfor­mazione. Entrare in contatto, in dialogo con i giovani non sarà possibile se chi parla ha perduto la capacità di sognare, è privo di ideali, è spento dentro. I gio­vani non hanno bi­sogno di un adulto qualsiasi, ma di e­sempi di coraggio, indipendenza, one­stà, fantasia e, per­ché no?, di utopia. L’utopia è un valore senza il quale la ricerca di soluzioni, le speranze e dunque l’impegno, perdono forza. È su una proposta a­nimata da forte carica utopica che i più anziani possono sperare di tro­vare un contatto con i più giovani perché, come ricordava Bobbio, l’u­topia è la nostra comune giovinezza.
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