Due donne giapponesi prendono il tè, 1890-1900, stampa all’albumina dipinta a mano (Archivi Alinari)
In principio fu Yokohama. Oggi il nome di questa città giapponese con quasi 4 milioni di abitanti non dice molto rispetto alla potenza immaginifica che suscitano realtà come Tokyo o Kyoto. Simboli di un mondo estraneo ancora da sogno e così diverso dall’Occidente. Eppure è in questa città costiera, appena sotto l’antica Edo, che comincia a sorgere per il resto del mondo il Sole del Levante.
È qui che, a partire dal 1853 – quando il Giappone degli shogun Tokugawa fu costretto a interrompere il sakoku (il periodo di auto-isolamento) e aprì i porti al commercio con le potenze straniere – al seguito delle ambascerie, tanti viaggiatori e intraprendenti pionieri avviarono nuove attività, fra cui la fotografia. A Yokohama si sviluppò una vera e propria scuola per raccontare attraverso la nuova arte il mito del “mondo fluttuante”, quello che la produzione di pittori e incisori come Hokusai, Hiroshige o Utamaro aveva rappresentato in maniera affascinante con xilografie in stile ukiyo-e.
C’era un Giappone tutto da scoprire all’inizio del Novecento e poi da pubblicizzare attraverso articoli e inserti nei giornali di tutto il mondo. La neonata fotografia poteva dare un enorme contributo. Ed è quello che pensò e fece un veneziano, Felice Beato (1832-1909), fotografo, fotogiornalista e imprenditore a cui piaceva giocare in Borsa nei mercati del Paese. Dopo aver viaggiato in Europa, Egitto, India e Cina sbarcò nel 1863 in Giappone aprendo uno dei primi studi fotografici dell’epoca (“F. Beato & Co., Photographers”), affinando la tecnica di stampa e l’arte della coloritura a mano delle fotografie destinate al mercato estero che ha reso poi la fotografia giapponese del XIX secolo unica al mondo, nota con il nome di “ Yokohama shashin”.
Uno stile che si può ammirare nel pregiato volume Lost Japan di Rossella Menegazzo (Mondadori Electa/ Alinari, pagine 160, euro 99,00): una rassegna di suggestive fotografie che proiettano il lettore in un Giappone (apparentemente) perduto.
Le immagini di Felice Beato, dei suoi collaboratori e dei suoi contemporanei come Kusakabe Kimbei o Raimund von Stillfried sono una finestra documentaria – antropologica ed etnografica – per affacciarsi sul Giappone che si stava aprendo all’occidente «dopo 250 anni di chiusura quasi totale», sottolinea Menegazzo, professore associato di Storia dell’arte e dell’Asia Orientale all’Università di Milano, profonda conoscitrice del Giappone e dei suoi grandi artisti (è lei la curatrice della prima mostra italiana sul “visionario” Utagawa Kuniyoshi alla Permanente di Milano, fino al 28 gennaio).
Nel libro scorrono le eleganti stampe all’albumina colorate a mano che svelano al mondo vedute di luoghi straordinari: Nikko e il suo scenografico ponte rosso, i tori di Kyoto, il parco di Ueno a Tokyo, la fioritura dei ciliegi, il monte Fuji. E poi l’universo femminile, donne e geishe in kimono impegnate in attività quotidiane o durante lo svago, ma anche guerrieri e lottatori di sumo.
«Oggi parliamo di arte, ma all’epoca si trattava soprattutto di un business. Un mercato – continua Menegazzo – che si affiancava a quello di lacche, dipinti, armi e armature, ceramiche e tessuti importati in Europa in grandi quantità, al punto di dar vita alle prime grandi collezioni di arte ed etnografia giapponese. Beato fu un pioniere in ambito fotografico, perché seppe divulgare un’arte ancora affatto nota in Giappone, rendendola caratteristica di un’epoca e solo di questo Paese».
Ma cosa resta di quel Giappone? Come si concilia la tradizione con la modernità? È ancora la fotografia ad aiutare il racconto e la visione. “Epoca”, nel 1961, pubblicava in italiano un fascicolo di “Life” che fotografa il Paese del momento, con una Tokyo «troppo affollata» in cui si «lotta per raggiungere la città». Ma dove c’è «l’incantesimo di una grazia evanescente» e in cui la «fedeltà è la virtù principale». Pochi anni dopo “Epoca” invia in Giappone Mario De Biasi. I suoi reportage regalano prospettive rivelatrici. «Il fotoreporter segue le Olimpiadi di Tokyo del 1964 e l’Expo di Osaka del 1970 – ricorda Menegazzo –. Mostra quel Giappone che permane nella nostra immaginazione, dove coesistono le geishe, la lotta del sumo, il kimono, la casa tradizionale accanto ai grattacieli, le autostrade su più livelli e i primi capsula-hotel. Il Giappone di una volta, ma anche la modernità delle ragazze di Tokyo che si liberano dalle costrizioni dei matrimoni predefiniti come consuetudine. De Biasi mostra in modo nuovo un Giappone ancora sconosciuto». Che cattura l’occhio di chi guarda e fa venire voglia di andarci: è in questi anni, non a caso, che comincia il turismo, sostenuto dalle prime pubblicità delle compagnie aeree e dalla creazione nel 1964 dell’Ente nazionale del turismo giapponese (Jnto).
«Le città nipponiche odierne possono essere interpretate come simboli viventi del caos – scriveva nel 1971 l’etnologo, esploratore e saggista Fosco Maraini (dalla prefazione di Giappone Mandala, Electa, 2014) – . Le strade sono fiumane assordanti di camion, autobus, taxi, automobili. Folle ininterrotte di passanti si accalcano sui marciapiedi, dove pacifiche nonnine in kimono camminano a fianco con indefinibili creature dal sesso incerto con i capelli lunghi e pantaloni informi. Sono le immagini di un mondo sconcertante, divertente pieno di vitalità, ma che è impossibile definire armonioso». Maraini va però oltre la semplice idea di «contrasto» su cui si soffermano gli osservatori internazionali: in «trent’anni di studio amorevole del Giappone» può dire che c’è «il caos esteriore, il folle samsara di pparenze», ma «in profondità si percepisce qualcosa di monolitico che funge da struttura portante, tenendo assieme tutte le componenti di questa macchina complessa».
E oggi? Quale Giappone scoprono i quasi 25 milioni di turisti che visitano il Paese e in maniera sempre crescente (sono attesi in 40 milioni per le Olimpiadi di Tokyo 2020)? L’impressione è che ancora oggi resistano la visione di Maraini e il doppio volto di De Biasi. «Credo – riprende Menegazzo – che nonostante il Giappone sia l’Oriente più occidentale e ci offra un’accoglienza familiare, come una grande New York, in profondità c’è tutta la sua asiaticità. Nel momento in cui si entra in intimità con il Paese, ci si toglie le scarpe e si entra in una casa, ci si accorgerà che con i manga, i videogiochi, le abbaglianti sale del pachinko, persiste un Giappone di piccole azioni senza tempo: la camminata con il kimono, il tatami, il movimento del ventaglio o la cerimonia del tè, gli onsen. E il silenzio».
Così il crocevia di Shibuya a Tokyo – il più trafficato al mondo, che chi arriva qui attraversa alimentandone il mito, fra vie segnate dai marchi dello shopping più globalizzato – a questo punto appare solo uno dei tanti divertissement, concessioni al caos contemporaneo, quasi a distogliere il visitatore abbagliato per preservare il Giappone autentico, che non parla inglese, che si ritrova in meditazione in templi e giardini dalle atmosfere magiche, che si concede il rito del tè matcha con uno stile che da Felice Beato a oggi, è forse cambiato, ma non si è perduto.