La fioritura dei ciliegi, spettacolo primaverile di Tokyo / Epa/Kimimasa Mayama
Si chiama Yusuke Yokobataka. Fino a qualche giorno era un ignoto funzionario della presidenza del Consiglio. In questi giorni è il giapponese in assoluto più “cercato”. Da quando è trapelato il suo nome, non esce nemmeno più dal suo ufficio, situato all’interno di Sorifu Kantei, il Palazzo Chigi del Giappone. Si è fatto portare una branda (lo fanno ancora in molti, in Giappone, quando c’è da fare straordinari) e si è barricato dentro. Quando deve usare la toilette, viene fisicamente scortato da 4 poliziotti, che impediscono ai reporter, anche loro “accampati” fuori dalla porta, di avvicinarlo. Questo fino al 1° aprile. Data in cui ci sarà l’annuncio. E lui potrà tornare a casa, rientrando nel suo dignitoso anonimato. Non è uno scherzo.
Il 1° aprile, esattamente un mese prima dell’abdicazione formale dell’attuale imperatore Akihito, il governo giapponese annuncerà il nuovo gengo, la nuova èra. Già, perché il Giappone, assieme alla Corea del Nord e a qualche altro Paese, non segue – o quanto meno non solo – il calendario “occidentale” (gregoriano), bensì uno suo particolare, legato all’imperatore in carica. Che infatti alla sua morte – o in questo caso, dopo l’abdicazione – assume, non avendone, come vedremo, uno personale, il nome della sua èra. Così dall’èra Showa (“pace illuminata”), quella dell’ex imperatore Hirohito, si era passati nel 1989 all’èra Heisei (“pace duratura”) quella dell’attuale imperatore Akihito. Ma ora si cambia di nuovo. Un gruppo di esperti, 14 per la precisione, rigorosamente selezionati dal governo e dalla Casa Imperiale, sono formalmente riuniti dal 14 marzo (ma in realtà è almeno un anno, da quando il governo ha finalmente dato via libera alle dimissioni dell’imperatore, che ci pensano su) per selezionare i due ideogrammi che dovranno simboleggiare la nuova era. Per farlo hanno in teoria un “serbatoio” di oltre 30 mila caratteri, ma in realtà dovranno scegliere tra poche centinaia, da quando il governo, nel 1979, ha emanato una legge che disciplina nei dettagli le caratteristiche che i due caratteri debbono avere. Una delle quali, la semplicità di scrittura. I caratteri giapponesi (e cinesi) infatti possono essere composti da un minimo di un “tratto” a oltre cinquanta.
L’estrema riservatezza con cui si sta proteggendo la complicata procedura di selezione della nuova èra – pare che ciascun “esperto” possa scegliere un minimo di 2 e un massimo di 5 nomi, che sono stati consegnati, in busta chiusa e anonima, al signor Yokobataka ieri, per poi essere consegnate al Consiglio dei ministri la mattina del 1° aprile, per la scelta finale – abbia a che fare con la sacralità del Tenno (“signore del Cielo”, da non confondere con il “Figlio del Cielo” che pertiene al sovrano cinese) e con la sua tuttora ambigua figura istituzionale. Perché se è vero che alla fine della guerra – per aver salva la vita – l’allora imperatore Hirohito rinunciò alla sua natura divina e che la vigente Costituzione definisce il Tenno semplice «simbolo dell’unione del popolo giapponese», attribuendogli un ruolo esclusivamente cerimoniale, è anche vero che tuttora il capo della religione indigena, lo shintoismo, e per la stragrande maggioranza dei giapponesi (che sull’argomento non amano comunque discutere) rappresenta un’entità unica e indefinibile, una sorta di “collante”, loro lo chiamano nibe, che attraverso una storiografia improbabile e una bizzarra e spesso divertente narrazione mitologica (consiglio, a questo proposito, la lettura del Kojiki, “Cronache dell’antichità”, tradotto anche in italiano da Marsilio) li tiene ancorati alle loro, tuttora ignote, origini. Il bello è che l’imperatore in realtà non esiste. C’è, lo si vede, parla, va in giro, amato e rispettato. Ma giuridicamente non esiste. Né lui né la sua ristretta cerchia di familiari hanno documenti d’identità, certificati di nascita, un cognome. A suo tempo, la principessa Masako – moglie di Naruhito, l’erede designato, che prima di essere praticamente obbligata a sposarsi conduceva una vita normale – cadde in una lunga e malcelata depressione perché aveva perso ogni forma di libertà personale: dal guidare una macchina all’uso del cellulare. «La vita, per i membri della famiglia imperiale giapponese – mi diceva padre Giuseppe Pittau, per anni rettore della Jochi, l’Università Cattolica di Tokyo – è molto dura, piena di doveri e di sacrifici. Nulla di paragonabile alla bella vita dei loro colleghi europei». Altro particolare: quando viaggiano, a differenza dei regnanti di tutto il resto del mondo, non hanno un passaporto. In questi casi si tratta pur sempre di formalità, a nessun poliziotto di frontiera verrà mai in mente di controllare il passaporto della regina Elisabetta, o di re Juan Carlos. O del Papa. Ma sta di fatto che i membri della famiglia imperiale giapponese non lo possiedono.
In Agape Celeste, uno dei suoi meno noti, ma insuperati per rigore accademico, saggi sul Giappone, Fosco Maraini affronta proprio le caratteristiche degli ultimi, così li chiama, «ambasciatori dell’Assoluto». Il Santo Padre, il Dalai Lama e il Tenno (spiegando perché non lo si possa o non lo si debba chiamare “imperatore”, visto che non “impera” per niente). Uno studio affascinante, in cui sostiene che il Papa è “ambasciatore” per vicariato e rappresentanza, il Dalai Lama per reincarnazione e il Tenno per – ovviamente presunta – discendenza diretta e consanguineità. Peccato che, come dire, i conti non tornino. L’attuale Tenno dovrebbe essere il 125° discendente diretto di Jimmu, a sua volta partorito dalla Dea del Sole Amaterasu, ma se ciò fosse vero vi dovrebbero essere sovrani che hanno vissuto centinaia di anni, mentre spesso e volentieri gli imperatori, mai davvero “regnanti” e quasi sempre ostaggio dei potenti di turno, morivano o venivano sostituiti in tenera età. Ma questa è la storia, che la sue dure regole. Il popolo giapponese – e i suoi media, che in questi giorni braccano il povero Yokobataka per cercare di carpirgli i segreti del gengo, la nuova èra – preferisce cullarsi nella leggenda. E affidarsi al potere taumaturgico delle parole: loro la chiamano kotodama, “potenza del verbo”. E sperano che dopo l’èra Heisei, “pace duratura”, che ha mantenuto le promesse (per la prima volta nella storia il Giappone non ha subìto né provocato guerre) anche la prossima non riservi brutte sorprese.