Informatori, diplomatici, disertori, persone in cerca di un rifugio, militari o ebrei, e naturalmente cardinali, monsignori, Gendarmi e Guardie svizzere. Sono i protagonisti di una vera e propria spy story che si svolge su un territorio minuscolo, ma aperto al mondo; antico, ma appena nato. Siamo, infatti, nello Stato Città del Vaticano, solo 11 anni dopo i Patti Lateranensi. Qui però non si tratta di fiction, bensì di storia. Storia di un tempo difficile come quello dal 1940 al 1944. Anni di tempesta per la Chiesa e per il papa regnante, Pio XII. Vaticano nella tormenta si intitola il saggio di Cesare Catananti (San Paolo, pagine 368, euro 25,00) che ricostruisce minuziosamente il microcosmo del piccolo Stato nel cuore di Roma in quei frangenti rischiosi. E lo fa a partire dalla mole di documenti contenuti nell’archivio della Gendarmeria Vaticana. Un tesoro rimasto finora inesplorato e che, pur lacunoso e ancora in via di catalogazione, ha offerto all’autore inediti assoluti. Come le disposizioni emanate per difendere e mettere in salvo il Pontefice in caso di intrusione di “facinorosi” per rapirlo. Piano che era nelle intenzioni di Hitler e che poteva essere messo in atto da un momento all’altro, dopo l’8 settembre, momento in cui il vento agitò con più fragore il Portone di Bronzo. Ma andiamo con ordine. Prima dell’uragano, infatti, ci furono spifferi e venti di varia intensità che lo prepararono.
Innanzitutto c’è il periodo dell’ingresso in guerra, in cui si manifestano i primi problemi legati all’attuazione del Trattato del Laterano. In particolare sul diritto di legazione della Santa Sede, che dovette rimettere in sesto il vecchio convento di Santa Marta per ospitare il corpo diplomatico delle nazioni alleate, ora nemiche del-l’Italia. E in certo modo anche controllarlo, con un sapiente intreccio di chiusure e aperture. Giocavano un ruolo le diverse sfaccettature con cui, anche all’interno della Curia romana, venivano interpretati i rapporti con il regime mussoliniano. Il presidente del Governatorato, cardinale Nicola Canali, vedeva più di buon occhio il fascismo, anche se – a riprova della sua complessa personalità – veniva ricambiato con sospetti di antifascismo. Mentre la segreteria di Stato, con il sostituto Giovanni Battista Montini, era più aperta alla linea dell’ospitalità a ebrei, oppositori politici e ricercati. Per questo il futuro Papa Paolo VI finì più volte nel mirino, accusato di spionaggio. All’interno delle Sacre Mura i diplomatici stranieri misero, in effetti, a più riprese in difficoltà la Gendarmeria, che dipendeva dal Governatorato. In particolare gli inglesi si appoggiavano, per uscire ed entrare in segreto – o per far accedere in Vaticano loro informatori – sulla Guardia Svizzera, che dipendeva invece dalla segreteria di Stato ed era animata da sentimenti antitedeschi. Crocevia di scambi e canale per le uscite erano in particolare la basilica petrina e i Musei Vaticani, affollati di visitatori.
Facile scambiare due chiacchiere in codice con qualcuno, magari fingendosi guida turistica, o acquistare un biglietto per entrare e uscire inosservati. O almeno così si credeva, perché gli spifferi e i veleni erano continui. L’Ovra aveva i suoi informatori. Tra i quali il segretario dell’Ufficio di Polizia (articolazione della Gendameria) Giovani Fazio e il gendarme altoatesino Anton Call. E anche, in secondo piano, il barbiere della gendarmeria, Andrea Mondelli. I primi due furono rimossi tra il 1942 e il 1943 e l’Ufficio soppresso. Particolarmente attivo nell’organizzare la rete della British organisation, su cui il volume fornisce dettagliate e interessanti pagine, fu il maggiordomo dell’ambasciatore britannico Osborne, John May, definito una vera e propria «spina nel fianco per i gendarmi». Questi – insieme al monsignor Hugh O’Flaherty, la “Primula rossa del Vaticano”, e al delegato svizzero, conte Sarsfield Salazar – costituì un vero e proprio “Consiglio dei tre” per vagliare e risolvere le varie emergenze. Dopo l’8 settembre, con i soldati nazisti alla porte, il turbine si intensifica. E con esso – mentre le bombe cadono sulle Ville Pontificie e pure su vari luoghi della Città del Vaticano come la stazione - le voci della possibile attuazione del piano di rapimento del Pontefice. Nei sacri palazzi non ci si faceva ovviamente illusioni sulle capicità di resistenza del minuscolo “esercito” del Papa, 200 elementi, di fronte a un attacco militare. Nel piano di difesa si discuteva pure se e in quali estreme circostanze opporsi con le armi.
E veniva predisposta una linea di difesa agli ingressi, con tanto di sbarramenti di fortuna. Il piano prevedeva di ritirarsi nel Palazzo Apostolico in caso di dover opporre ulteriore resistenza. Fino a fare «scudo con il proprio corpo alla Sacra ed Augusta figura del Sommo Pontefice». Su papa Pacelli, ricorda nella prefazione lo storico Andrea Riccardi, dai tempi del dramma Il Vicario di Rolf Hochhut si è «allungata l’ombra dei silenzi ». Ma non ci si è mai chiesti in che condizioni egli operò. Questo libro – definito un saggio di «storia materiale» che riporta dai giudizi morali al terreno fattuale – «esamina con attenzione e in modo documentato quale fosse lo 'spazio' del Papa durante la seconda Guerra mondiale e nei nove mesi di occupazione nazista di Roma». Il saggio, spiega l’autore, non tratta dei presunti 'silenzi' per l’assenza di elementi nuovi. Ma anche perché dai documenti presentati emergono «inequivocabilmente le azioni concrete e rischiose che la Santa Sede portò avanti, seguendo le volontà del Pontefice». Ora sull’annosa questione si attendono nuove rivelazioni dalla prossima apertura, il 2 marzo, degli archivi riguardanti il pontificato di Pacelli.
Il nuovo saggio di Cesare Catananti analizza gli archivi relativi ai cruciali anni dal 1940 al 1944, tra minacce nazifasciste e tutela di Roma
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