Lo scrittore Santiago Gamboa - Epa/Toni Albir
«Un bambino privo di protezione si trasforma in un uomo crudele. Il trauma di essere orfani si corrompe con gli anni, e qualcuno ne esce indurito». È la perenne orfanità, il "complesso di Telemaco", la chiave per comprendere la Colombia, Paese senza padri, ammazzati dalla più lunga guerra d’Occidente e dove tutti lo bramano. Una condizione esistenziale sopravvissuta alla fine del conflitto, nel 2016, con la firma dell’accordo tra il governo e le Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia (Farc). «Se non riesce a comprendere questo, mia cara Julieta, non ha idea del Paese in cui vive». Una terra dove l’onda espansiva della guerra, ormai terminata, continua a gettare ancora «cadaveri sulla spiaggia». E non smette di «sollevare il suo bel manto vegetale per estrarre dalla terra migliaia di ossa solitarie, affinché tutte recuperino il proprio nome e raccontino una storia», si legge in Sarà lunga la notte di Santiago Gamboa. Il romanzo, pubblicato da e/o (pagine 414, euro 19,00) è la metafora del difficile e cruento dopoguerra colombiano che l’autore coglie nella sua essenza. Gamboa ha vissuto oltre trent’anni fuori dal Paese, viaggiando per l’Europa, Italia inclusa, e l’India. «Sono tornato alla fine del 2015, poco prima che venisse finalmente siglata la pace. Ho sperimentato, dunque, la grande delusione per la prima bocciatura del patto nel referendum. Per fortuna, l’accordo è stato poi approvato dal Parlamento con lievi modifiche. La pace ferita non era stata uccisa dal populismo. Ho capito che mi trovavo in un momento unico. E avevo di fronte a me uno straordinario "materiale narrativo". Grandi scrittori avevano descritto il conflitto in tutte le sue sfaccettature. Alla mia generazione toccava il "post"», racconta il romanziere, in perfetto italiano. Così è nato Sarà lunga la notte, storia di un’indagine compiuta da una giornalista, un’ex guerrigliera e un procuratore su uno scontro avvenuto in uno sperduto villaggio del Cauca, il cui unico testimone è un ragazzino indigeno. Tra incontri, sparatorie e fughe, i tre saranno catapultati nel labirinto delle sempre più potenti sette evangelicali e nel loro oscuro business milionario.
Uno dei personaggi centrali del libro è il pastore Fritz della chiesa Nuova Gerusalemme. Perché ha scelto di addentrarsi nel complesso intreccio tra fanatismo, fede e affari delle sette?
Innanzitutto perché stanno cercando di acquisire sempre più potere politico e mediatico. Sono, dunque, un elemento fondamentale dell’attualità colombiana. E, secondo, perché mi affascina comprendere le ragioni dell’attrazione che sono capaci di esercitare. Credo che, in fondo, rientri nella "grande orfanità" nazionale. Donne e uomini cresciuti senza punti di riferimento e, dunque, sensibili a proposte rigide, intransigenti ma rassicuranti come quelle delle sette.
Il suo ritorno è stata anche una scelta professionale. Perché ha creduto di doverlo fare?
Per la prima volta in oltre mezzo secolo, la nazione in cui sono nato ha un’opportunità concreta di pace. Volevo partecipare al processo di costruzione come cittadino. E come scrittore ho pensato che fosse mio dovere narrarlo. Il dopoguerra deve trovare la sua "voce".
Lo pensa ancora?
Sì e la vittoria di Gustavo Petro, primo leader di sinistra eletto alla presidenza, me lo ha confermato. Solo poco tempo fa sarebbe stato impossibile. Il Paese vive una tappa di mutamento. La pace ha aperto un percorso che non sappiamo dove porterà ma di certo non sarà più la Colombia di prima.
Negli ultimi anni, il Paese ha sperimentato un forte incremento della violenza con l’assassinio sistematico degli attivisti, la ricomparsa dei paramilitari, il ritorno alle armi di una parte delle Farc. Tanti hanno parlato di pace incompiuta e di ripresa della guerra. Che cosa ne pensa?
Credo che la pace abbia rischiato di naufragare molte volte negli ultimi sei anni. Ma non l’ha fatto. È ancora possibile. E credo che le prime scelte del nuovo governo dimostrino l’intenzione di raggiungerla. Molto dipende dal fatto che in noi colombiani non prevalga la consueta ansia di fallimento. Siamo un Paese abituato alla violenza, al conflitto, alle sconfitte e facciamo fatica a gestire le emozioni positive.
Forse è per questo che la Colombia è una nazione tanto letteraria…
Lo è. E me ne sono reso conto tornando. È come se avessi conosciuto tutto di nuovo. Oltretutto per scrivere Sarà lunga la notte ho viaggiato nel Cauca che, da persona nata e cresciuta a Bogotà, non conoscevo. Ho dovuto esplorarlo in ogni aspetto: riesco a scrivere solo immaginandomi ogni scena nei dettagli. Ho, dunque, scoperto “l’altra Colombia”, quella a una distanza sociale incommensurabile da Bogotà. Ne sono stato ammaliato. Per la prima volta, ho sentito di narrare la nazione da dentro, dalle sue viscere.
C’è qualche autore nella breve ma intensa tradizione letteraria colombiana che è per lei fonte di ispirazione?
Ovviamente conosco e amo gli autori del mio Paese. Sono, però, un autore di noir e gialli, dunque i miei riferimenti principali appartengono a questo genere. E vanno da Leonardo Padura Fuentes a Patricia Highsmitt.
Perché proprio il noir?
Perché consente di esplorare i lati oscuri della società e, dunque, di rappresentarla nella sua complessità. La Colombia, inoltre, ha una "storia noir". Per raccontarla, sono stato quasi costretto a utilizzare questo genere. Non avrei saputo farlo in altro modo.
La Colombia attraversa uno snodo fondamentale della propria storia. Che cosa sogna per il suo futuro?
Sogno un Paese in cui gli essere umani abbiano uguali opportunità e una vita degna. In cui lo Stato garantisca a tutti istruzione, sanità e protezione sociale. Altrimenti continueremo a essere una nazione di orfani. E, come dice il pastore Fritz in Sarà lunga la notte, «un bambino privo di protezione si trasforma in un uomo crudele».