«Il centenario della Prima Guerra Mondiale può costituire l’occasione, anche in l’Italia, per fare i conti con un capitolo doloroso e rimosso dalla memoria nazionale: quello dei più di mille soldati italiani fucilati o comunque uccisi dal piombo dei propri commilitoni, perché ritenuti colpevoli di gravi reati militari». Il professor Nicola Labanca dell’università di Siena, uno dei più apprezzati storici militari, pesa le parole: «Mi rendo conto che è un discorso molto delicato. In quel migliaio e passa di soldati italiani fucilati c’è un po’ di tutto: colpevoli di reati comuni gravi, come furti, e di indiscipline varie; sbandati o traditori; disertori, veri o presunti. Soprattutto ci sono anche gli uccisi, come si diceva allora, per 'dare l’esempio', come i decimati, estratti a sorte dai reparti ammutinati o ritenuti poco coraggiosi. O, ancora, coloro che non si rifiutavano di combattere tout court, ma contestavano ordini che prevedevano missioni inutilmente suicide». Le cifre complessive delle 'vittime' della giustizia militare in Italia durante la Grande Guerra sono ancora avvolte nell’ombra. Ci sono i numeri delle condanne a morte comminate dai tribunali militari, presieduti da giudici: circa 4.000, di cui però quasi 3.000 in contumacia (riguardavano la mancata presentazione alle armi degli italiani emigrati all’estero). Delle 1.000 rimanenti 750 furono effettivamente eseguite mediante fucilazione. Di ognuna di esse esistono gli atti processuali, studiati per la prima volta molti anni fa da Enzo Forcella e Alberto Monticone. Ma le fonti sono approssimative o addirittura inesistenti nei casi della cosiddetta 'giustizia sommaria'. È molto difficile avere dei dati certi. Gli storici Irene Guerrini e Marco Pluviano, nel loro libro
Le fucilazioni sommarie nella Prima guerra mondiale (2004) ne hanno contate almeno trecento. Ma sono cifre per difetto. Oltre ai tribunali militari ordinari, secondo le ferree disposizioni del capo di Stato Maggiore Luigi Cadorna, che emanò specifiche circolari, i comandi potevano istituire al fronte 'tribunali straordinari', composti da soli ufficiali (quindi con minori garanzie rispetto ai tribunali militari ordinari), che emettevano il verdetto in pochissimo tempo; ma potevano anche procedere all’esecuzione immediata di soldati macchiatisi di gravi colpe e, in caso di reati collettivi, ricorrere al terribile metodo della decimazione, estraendo a sorte e passando per le armi un soldato ogni dieci. Inoltre c’è da tenere conto delle esecuzioni avvenute nelle trincee (gli ufficiali e i sottufficiali avevano il dovere di sparare ai sottoposti che, durante gli assalti, si rifiutavano di combattere). Certo è che la mano della giustizia militare italiana fu particolarmente pesante. I dati comparativi parlano chiaro. L’Italia con più di 1.000 fucilati su 4 milioni e 200 mila soldati al fronte è in cima alla lista, immediatamente dopo la Russia che giustiziò migliaia di militari. L’esercito francese (che iniziò la guerra un anno prima) ebbe 6 milioni di combattenti e 700 fucilati. Nell’esercito inglese questo numero scese a 350. La Germania, ma i dati non sono del tutto attendibili, solo 50. Gli americani, che buttarono nell’ultimo anno di conflitto milioni di uomini, ne ebbero poco più di una decina per reati comuni, come il furto e lo stupro. I plotoni di esecuzione in Italia furono solo la punta di un iceberg di una giustizia militare particolarmente inflessibile. «Gli studi – aggiunge Labanca – parlano di 870 mila soldati italiani denunciati. Anche tenuto conto che quasi metà dei procedimenti era relativa a emigrati non tornati, quella cifra significa che un soldato italiano su dodici incorse nei rigori della giustizia militare. Un dato elevatissimo che dimostra quanto poco i fanti italiani sentissero la guerra, iniziata come guerra di conquista. E come Cadorna intendesse reagire al timore di un limitato spirito combattivo dei soldati con il terrore e la repressione. I severi giudizi dei tribunali militari peraltro non furono sempre equi: basti pensare che due terzi dei soldati giudicati furono condannati, mentre due terzi degli ufficiali assolti». Il confronto dell’Italia con le altre nazioni è però sfavorevole anche sul piano della memoria. In Francia il presidente del consiglio Jospin aprì già nel 1998 un dibattito storico politico sulla questione dei condannati a morte, non senza polemiche e discussioni. Per il Centenario il ministro della Difesa francese ha richiesto il parere di una commissione di storici, incaricata di studiare la questione. Nel 2012 è stata varata una legge che obbliga i Comuni a inserire i nomi dei giustiziati nelle liste dei caduti su targhe e monumenti. In Francia, insomma, i 'fucilati' sono stati 'riabilitati'. Così in Nuova Zelanda, nel 2000. Le definizioni sono diverse, a seconda dei Paesi. Nel 2001 il Canada ha «restituito l’onore» ai soldati passati per le armi. In Gran Bretagna, nel 2006, sono stati «perdonati ». Non mancano in questi Paesi persino dei monumenti ai 'fucilati'. E in Italia? «A parte il ministro della Difesa Scognamiglio, che fece un accenno al problema una quindicina di anni fa – risponde Labanca – nessuno ne ha più parlato ufficialmente. Ora forse è arrivato il momento, come Paese, di fare i conti con la spinosa questione. Nessuno pretende di equiparare i morti caduti in combattimento con quelli che, a vario titolo o per ragioni diverse, si sono rifiutati di farlo. Certo è che i 'fucilati' italiani, siano essi colpevoli o innocenti, sono comunque vittime della guerra. Ma i loro nomi non figurano nemmeno nell’'albo d’oro' dei caduti italiani. Più che di riabilitare (anche se in qualche caso specifico sarebbe più che doveroso), qui credo che si tratti di facilitare le ricerche degli storici (anche nominando una Commissione) e soprattutto di reintegrare nella memoria nazionale quella pagina dolorosa della nostra storia». Il centenario della Grande Guerra può costituire un’occasione veramente propizia, che non può essere sprecata.