Caro Franco, ti scrivo anche se ci siamo salutati da poco, dopo una cena sontuosa e allegra al Là di Moret, nella tua Udine, la città che ti ha adottato arricchendosi di un uomo serio e sereno e di un campione che, smessa la maglia della Juventus, s’è concesso un altro giro in bianconero, nell’Udinese, per formare una coppia inedita con Zico, quasi a cercare origini favolose - lontano dalla natìa Lecce, a Rio - come aveva voluto Vladimiro Caminiti, il Poeta del futbol, battezzandoti
Brazil. Sei passato alla storia delle nostre domeniche in bianco e nero e a colori, dominante l’Azzurro d’Italia, con il soprannome “Barone” già toccato a un maestro di nome Nils Liedholm, un altro dei miei amici, perché il vecchio Fulvio Cinti era rimasto colpito dalla tua eleganza classica, così diversa dalla sciccheria all’ultima moda di tanti tuoi compagni: aveva ragione , perché insieme all’abito old style e le cravatte di gusto avevi conservato i numeri del calcio d’antan, a cominciare da quella posa classica del pedatore che apre le braccia come ali e, quasi sospeso nell’aria, accarezza la palla eppoi l’invia al suo destino, vuoi il piede di Bettega, vuoi la rete avversaria. Ti scrivo, caro Franco, perché appena è uscita in libreria la tua storia - il nostro libro - m’è arrivato sul web un cortese insulto da un tifoso juventino trinariciuto e dispiaciuto: «Peccato che l’abbia scritto con Cucci (ecc ecc) ma lo comprerò lo stesso…È stato il mio idolo…»; e allora voglio ricordare al tuo fan, che sta già godendosi la tua vita con la Signora, dovendosi accontentare di leggerla, i tuoi sei scudetti juventini, il titolo di campione del mondo conquistato all’ultimo minuto di Italia-Germania 1982; ché io c’ero, c’ero sempre, testimone d’un tempo cominciato prima dei tuoi successi, quand’eri ancora ragazzino, seguendo come in sogno e raccontando le gesta di Omar Sivori, un altro signore dei campi che un giorno da grigi - come ha scritto l’immaginifico giudice Mirabella - diventarono verdi grazie a un teleschermo non ancora invaso dal ripetitivo, assillante calcio business. Non poetavo, come Vladimiro, ma andavo a cercare giovani talenti, come il Rivera - il primo di tanti - che tu hai confessato di aver avuto ispiratore, insieme al suo maestro Dino Sani, genio senza sregolatezze: da entrambi hai ricavato il più grande insegnamento: essere talento prezioso e generoso uomo- squadra. Per questo hai incantato i tuoi primi maestri, conquistato tecnici scontrosi come HH2, l’Heriberto Herrera che ti fece esordire in A, e il professor Di Bella a Palermo, e ancora il signor Armando Segato che ti mandava in campo, nella sua Reggina, per rompere il gioco avversario, fino ad arrivare a quel mister che temevi nemico e che invece ti fece juventino per sempre, Armando Picchi, che ti chiamò “Maestro” e invece eri ancora ragazzo: il tuo racconto di quei giorni e di quell’uomo straordinario e sfortunato è stato il momento più bello delle nostre lunghe e piacevoli chiacchierate piene di amarcord. Un salto nella giovinezza. E ora ti saluto, invitando gli amici a leggerti soprattutto nelle pagine dedicate a Enzo Bearzot, il nostro “Bea”, Giampiero Boniperti, Carlo Parola, “Cesto” Vycpaleck, Giovanni Trapattoni, i signori del Mondiale e dello scudetto che ti hanno insegnato la Grande Verità del calcio: «Vincere è l’unica cosa che conta». Restando uomini veri.
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