Un giovane aveva catturato molte tortore, e andava a venderle. Incontrò Francesco, che, particolarmente attratto dagli animali mansueti, lo pregò: «Buon giovane, ti prego, dammi queste tortore, affinché uccelli così buoni e innocenti, a cui nelle Scritture sono paragonate le anime degli umili fedeli, non finiscano nelle mani degli uomini crudeli che li uccideranno». Immediatamente il ragazzo, per ispirazione divina, gliele diede tutte. E Francesco, ricevendole in grembo, cominciò a parlare loro, dolcemente: «Sorelle tortore, così semplici, innocenti e pure, perché vi lasciate catturare? Ora io vi farò i nidi, e vi metterò in condizione di prolificare, secondo il comandamento di Dio, vostro Creatore». Si mise all’opera, fece a tutte il nido. E le tortore cominciarono a fare uova e pulcini, vivendo tra i frati e con loro in confidenza, come se fossero stati animali domestici, sempre nutrite da quegli umani. E non partirono mai, fino a quando fu Francesco a dar loro licenza di volare via. Salivano, Francesco e i suoi frati, sulla Verna, stanchi decisero di riposarsi un poco sotto l’ombra di una quercia. Mentre appagato Francesco guardava il paesaggio, ecco apparve una grande moltitudine di uccelli, i quali con i canti e il festoso battere d’ali manifestavano festa e allegria, e lo attorniarono, alcuni posandosi sul suo capo, altri sulle spalle, altri ancora sulle braccia, in grembo, attorno ai piedi. Vedendo la meraviglia sul volto dei suoi compagni, pieno d’allegria, così si rivolse loro: «Io credo, carissimi fratelli, che al Nostro Signore Gesù Cristo piace che noi abitiamo in questo monte solitario, se tanta allegria manifestano le nostre sorelle e i nostri fratelli uccelli». E dette queste parole si levò in piedi, rimettendosi in cammino salutato dagli alati.Sulla Verna, per tutto il tempo di quella Quaresima, ricevette una visita dal cielo: un falcone che nidificava nei pressi della sua cella, ogni notte, poco prima del Mattutino, gli si avvicinava e col suo canto e col suo dibattersi lo destava, e non si allontanava fino a che Francesco non iniziava la preghiera del mattino. E quando accadeva che il frate, provato dalla malattia e dal digiuno, fosse troppo debole o infermo, l’uccello tardava ad apparire, e iniziava a cantare e a far rumore con le ali un po’ più tardi, per delicatezza. Francesco si rallegrava di questa sveglia nella cella sul monte, e la interpretava come una lieta, vitale sollecitazione celeste a essere attivo e vibrante fin dall’istante del risveglio, mobile e sospeso come quel falco. Che fu una sorta di messaggero di un successivo visitatore aereo: all’uomo che pregava Dio di fargli assaporare un frammento della gloria dei beati nella vita eterna, il Signore rispose inviando un angelo di grandissimo splendore, che teneva una viola nella mano sinistra e un archetto nella destra, e davanti allo stupefatto Francesco accostò allo strumento l’archetto creando all’istante una melodia inaudita. Simile a quella che udì Platone nella visione delle Sirene, la musica delle alte sfere. Francesco sapeva stupirsi sempre, al punto da non rendersi conto della sua consustanzialità con gli esseri alati. Conosceva, fisicamente, la sospensione estatica, la levitazione: la conosceva perché gli avveniva, ma non la memorizzava, erano gli altri a testimoniarla. Taceva dei suoi stati di volo sospeso o per la loro natura immemoriale, fuori dal tempo e quindi dal regno della memoria del levitante, o per quella stessa umiltà che lo avrebbe indotto a nascondere le stigmate per non avvalorare la sua già diffusa fama di santo. Ma frate Leone, che osservava attentamente la vita di Francesco, spesso, in quel periodo alla Verna, lo vide rapito da Dio e sospeso, distante da terra a volte tre braccia, a volte quattro, altre fino alla cima di un faggio, e un giorno lo vide levato talmente in alto e in un tale splendore che a malapena poteva riconoscerne i contorni.Amava l’allodola, l’uccello dell’alba che segna il ritorno della luce. Amava tutti gli uccelli, messaggeri del cielo, poveri, che si muovevano leggeri nutrendosi di quanto il Creato offriva spontaneamente. E di tutti l’allodola lo inteneriva perché era piccola, leggera, purissima. «La sorella allodola», diceva, «ha il cappuccio come i religiosi. Vola felice per le vie cercando qualche chicco, e se è il caso lo tira fuori anche dal letame. L’allodola», proseguiva, «ha un piumaggio, una veste color terra, è umile, e il suo volo è una continua lode al Signore». Si riprometteva, se mai avesse avuto occasione di parlare all’imperatore, di supplicarlo che per amor di Dio e per sua istanza emanasse un editto che vietasse la cattura delle allodole o qualunque danno nei loro confronti. E inoltre che tutti i podestà delle città e i signori dei castelli e dei villaggi, il giorno di Natale dessero disposizione alla gente di gettare frumento e altre granaglie sulle strade, fuori delle città e dei paesi, in modo che in quel giorno così solenne gli uccelli, e in particolare le allodole, potessero sicuramente mangiare.Con due confratelli si recò a predicare al castello di Cannario. Le rondini in volo producevano un forte rumore, gioioso, ma che impediva al predicatore di essere udito. Allora ordinò agli uccelli di tacere, e quelli subito obbedirono. La predica quindi ebbe inizio tra la meraviglia della gente del castello, che, incantata dal prodigio e infervorata dalle parole di Francesco, manifestava volontà di abbandonare tutto per seguirlo, ma ne fu dissuasa. Avrebbe indicato loro che cosa fare, a tempo debito. Ripartì, giunse in una campagna dove una infinita moltitudine di uccelli posava sui rami e al suolo, allora chiese ai due compagni di attenderlo sul sentiero, che sarebbe andato a predicare agli uccelli. Francesco si imbatte in una sorta di convegno decisamente non comune, una folla di alati che, intuisce, pare attenderlo.Per parlare a loro si allontana, di poco, certo, ma inequivocabilmente, dal sentiero che guida i passi e il cammino degli umani, si scosta dalla strada del tempo storico, si sposta e ferma nel campo accanto, rivolgendosi prima agli uccelli posati al suolo, poi, a poco a poco levando lo sguardo, a quelli sui rami, fino alle cime degli alberi. E al suo sguardo quelli che stavano in alto scesero a terra e si posarono accanto agli altri, rimasero immobili non solo durante la predica, ma anche quando era terminata. Solo quando li benedisse si levarono in volo. Frate Masseo e frate Iacopo, che avevano assistito alla scena da pochi metri, raccontano che prima di benedirli li aveva accarezzati, sulla collottola, e gli uccelli non si erano mossi: «Voi dovete essere sempre grati al Signore, che vi ha dato un vestito naturale di piume e la libertà di muovervi dove vi pare, e vi ha prediletto facendovi creature dell’elemento dell’aria, il più puro e lieve. Inoltre non siete condannati a seminare e mietere per vivere, e Dio vi offre l’acqua delle fonti e dei fiumi, e le montagne e gli alberi per nidificare. E siete ben vestiti senza saper tessere né filare. Guardatevi dall’ingratitudine, ringraziate».Quando ebbe finito di parlare, tutti gli uccelli aprirono i becchi, cominciarono a distendere i colli, aprire le ali e con riverenza chinare a terra il capino, e con le loro voci gli risposero, manifestando che avevano compreso e ne erano rallegrati. La felicità fu reciproca, Francesco li benedisse e tutti si levarono in cielo. Frate Masseo aveva un sogno, eroico, perché di quasi impossibile conquista: l’umiltà. Per trovarla viveva rinchiuso nella cella, macerandosi con digiuni e veglie, senza trovare la forza di conquistare quel dono.Un giorno uscì, s’inoltrò in una selva, in lacrime, chiedendo a Dio il dono dell’umiltà. Venne a lui una voce dal cielo, che lo chiamò due volte. Masseo la riconobbe in spirito, era la voce di Cristo. Gli chiese che cosa era disposto a offrire per quella virtù divina. Il povero frate rispose: «I miei occhi». «E allora tu avrai la grazia, e anche gli occhi», gli rispose la voce che aveva in spirito riconosciuto essere quella di Cristo. Da quel momento Masseo fu felice, e, nelle lunghe ore di preghiera, le sue orazioni erano emesse da una voce strana, una sorta di giubilo uniforme, con un suono simile al verso di colomba, ottuso.