venerdì 29 settembre 2017
A Milano una mostra con undici ambienti spaziali ricreati per l’occasione. L'idea di costruire una tridimensionalità nuova, onirica e surreale, che mette in scena il concetto di alterità fisica
Un ambiente di Lucio Fontana all'Hangar Bicocca a Milano

Un ambiente di Lucio Fontana all'Hangar Bicocca a Milano

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«Non intendiamo abolire l’arte del passato o fermare la vita: vogliamo che il quadro esca dalla sua cornice e la scultura dalla sua campana di vetro. Una espressione d’arte aerea di un minuto è come se durasse un millennio, un’eternità. A tal fine, con le risorse della tecnica moderna, faremo apparire nel cielo: forme artificiali, arcobaleni di meraviglia, scritte luminose». Così Lucio Fontana, con echi futuristi, scriveva nel 1948 nel suo Secondo Manifesto dello Spazialismo. L’artista argentino avrebbe dato vita al suo sogno di un’arte che investiva integralmente lo spazio reale e vitale l’anno seguente, presentando nella Galleria del Naviglio di Carlo Cardazzo l’Ambiente spaziale a luce nera, una vera e propria scatola magica in cui fluttuavano nell’aria forme dall’aspetto biomorfo, rese ancora più stranianti dalla luce nera emessa dalle lampade di Wood.

Tra 1949 e il 1968, anno della morte, Fontana avrebbe dato vita a diversi Ambienti spaziali per musei e gallerie, spesso portati in tournée in Europa e Stati Uniti. Opere gioiosamente effimere (a conferma dello spirito barocco di Fontana) che hanno disseminato suggestioni e spunti nell’arte del Dopoguerra ma poco presenti alla coscienza attuale in quanto relegate a foto storiche e recensioni. L’Hangar Bicocca ora, con la cura di Mariana Pugliese, Barbara Ferriani e Vicente Todolí, propone due interventi ambientali e nove Ambienti spaziali, a partire proprio da quello per la Galleria del Naviglio: lavori ricostruiti in modo filologico, sulla base non solo di immagini ma anche di documenti, lettere, disegni e planimetrie. Si tratta di stanze, corridoi e spazi labirintici per lo più bui, in cui è decisiva la presenza di luci colorate. Obiettivo primario di Fontana non sembra tanto essere la questione percettiva, ben più cruciale per l’arte cinetica e programmata. Fontana sembra più interessato a lavorare alla costruzione di uno spazio altro che, più che giocare con la nostra percezione alterata, è costruito nella sua entità grazie all’alterazione parziale della percezione.

È difficile sentirsi davvero smarriti o confusi in un ambiente di Fontana. C’è invece forte il senso di attraversamento di uno spazio magico, spesso onirico e inquietante. È sempre però un altrove, evidenziato dalla necessità di separare esterno e ambiente da camere di compressione completamente buie, spesso strette e basse. Sperimentare questi ambienti è rivelatorio nei confronti del resto dell’opera di Fontana. Se ne apprezza pienamente la dimensione cromatica, quei colori accesi, vibranti, talvolta persino sfacciati dei suoi Concetti spaziali; i fori sulle pareti – reali o evocati attraverso punti bianchi resi fantasmatici dalla lampada di Wood, ma sempre pulsanti di luce – tracciano percorsi e suggeriscono con una maggiore fisicità il senso della presenza di una dimensione che sta oltre la superficie-schermo; il grande taglio collocato al centro dell’Ambiente spaziale realizzato nel 1968 per Dokumenta 4 a Kassel (in collaborazione con Carlo Scarpa) diventa una presenza oracolare al cuore di uno spazio labirintico di un bianco metafisico. Fontana in questi progetti di una bellezza gratuita e fantastica espande modo decisivo, anche dal punto di vista comunicativo ed empatico, gli spunti che nei Concetti spaziali appaiono risolti più su un piano intellettuale.

Se neon e luce nera sono gli strumenti base per creare questi ambienti, un capitolo a parte però ricoprono i lavori in cui Fontana sospende liberamente nell’aria sorgenti luminose: lunghi neon che trattengono un gesto grafico nelle tre dimensioni. Fontana è sempre scultore (scultorei sono i gesti del forare e tagliare la tela) ma qui è al suo apogeo. L’Ambiente spaziale con neon – una stanza rosa ciclamino attraversata da un sognante neon rosso – progettato nel 1967 per lo Stedelijk Museum di Amsterdam, e soprattutto la Struttura al neon per la IX Triennale di Milano del 1951, ghirigoro fantastico sospeso a un cielo «blu Giotto», come nella grande scultura barocca non solo definiscono ma impongono – qui letteralmente irraggiano – lo spazio attorno a sé. Il neon bianco della Triennale apre il percorso con un vero colpo di teatro: l’opera appare all’improvviso, superata la tenda che occlude l’ingresso all’Hangar, alta e misteriosa, come se galleggiasse nello spazio gigantesco (alla Triennale era invece stretta in cima alle scale) e nonostante questo lo abita in modo totalizzante. Percorso che si chiude nel “Cubo” con un altro intervento ambientale spettacolare, Fonti di energia, soffitto al neon per “Italia 61” a Torino: una selva di tubi al neon verdi e blu che attraversano su sette livelli un grande pozzo ottagonale (in origine le superfici delle pareti erano specchianti), tracciando diagonali convergenti e divergenti. Gli altri ambienti nel mezzo sono ricostruiti in box su misura. Ancora una volta il grande invaso della Navata si rivela un ambiente difficile da manipolare. In questo caso la penombra consente almeno di collegare tra loro i diversi ambienti come in un liquido amniotico, senza spezzare la continuità dell’esperienza.


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