sabato 18 aprile 2009
Cattolica, intransigente, per lei il vero narratore affronta il mondo senza far finta che tutto abbia un lieto fine. La qualità di un racconto, diceva, non è data dai buoni sentimenti, ma dalla quantità di «vita sentita»
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C’è una donna terribile e affascinante nella letteratura contemporanea. Uno di quei tipi che ti andrebbe veramente di incontrare per farci due chiacchiere, sapendo che mai la darà vinta ai luoghi comuni. Una che non poteva indulgere a niente che non fosse, persino nel lampo estremo di gioia o di terrore, essenziale. Una che trafficava col grottesco e con Dio. E che aveva alcune idee decisamente controcorrente. Sapeva di averle, non si stupiva se era arduo trovare sostenitori. Ma non era il tipo di scoraggiarsi. Del resto, la tenacia non doveva mancare a una che da ragazzina aveva insegnato a un pollo a camminare all’indietro e che era malata di un terribile male che la spense a 39 anni dopo una vita artisticamente fertilissima. Flannery O’Connor è un nome che ormai circola diffusamente. Non solo perché a lei, concittadina di Oliver Hardy (il mitico Olio della coppia di comici) hanno reso tributo il cinema di Houston, la penna di Carver, e la musica di diversi rocker americani. Non solo perché senza O’Connor probabilmente non avremmo Cormac McCarthy. E non solo perché certi lettori dalla mente a radar – come Bertolucci – parlarono di lei in Italia ben prima che gli importanti studi o gli interventi di Elisa Buzzi, di Antonio Spadaro, di Ottavio Fatica (suo traduttore, come M. I. Caramella) di Luca Doninelli, di Andrea Monda e di Carola Susani arrivassero a illustrare questo profilo. Il suo nome gira perché i suoi racconti, per così dire, ti lasciano sul posto. A fissare l’aria o chissà cosa davanti alla sedia dove sei stato a leggere. Ti sembra di aver visto qualcosa. Per lei un racconto deve avere innanzitutto una qualità di visione. Del resto, diceva, «Per lo scrittore di narrativa tutto trova verifica nell’occhio». E aggiunge altrove che l’occhio è «organo che alla fin fine implica l’intera personalità, e quanto più mondo riesce a contenere. Implica il giudizio. Il giudizio è una cosa che ha origine nell’atto di visione, e quando non parte da lì, o ne è scisso, allora nella mente esiste una confusione che si trasferisce nel racconto». L’occhio ha radici nel cuore, secondo Guardini. «Comunque sia, per il cattolico si diramano addirittura fino a quelle profondità del mistero rispetto alle quali il mondo moderno è diviso: una parte cercando di rimuoverlo, mentre l’altra cerca di riscoprirlo in discipline che, dalla persona, pretendono meno della religione». Non amava la teoria intorno all’arte – che chiamava, con san Tommaso, 'ragione in atto', subito osservando quanto nella nostra epoca il termine ragione ha sofferto una restrizione. I racconti della O’Connor, cattolica e molto attenta nell’indagare i rapporti tra fede e narrativa, spesso non finiscono bene. Non sopportava il fatto che molti lettori, compreso il lettore medio cattolico, si aspettassero dei finali consolatori. Non sopportava il dolciastro. Come non lo aveva sopportato Péguy. Lo scrittore, diceva lei, racconta il mondo che è senza far finta di non vedere che molte cose finiscono male, ma, se dotato di un certo senso del mistero, vedrà come nelle vicende agisca il misterioso dramma di apertura o chiusura alla grazia. E la qualità morale di un racconto, osservò più volte, non sta in tesi o in fervorini esposti, ma in quel che Henry James chiamava quantità di «vita sentita», percepibile drammaticamente nella storia. Questi furono alcuni dei motivi che spinsero don Giussani, studioso del protestantesimo americano, ad accogliere nella collana che dirigeva presso Rizzoli il volume a oggi più venduto della O’Connor in Italia: un’antologia di racconti e di scritti, La schiena di Parker. Lei non sopportava molte cose: gli scrittori sciatti, per esempio. A chi le chiedeva se le scuole di scrittura e i corsi universitari non avessero tarpato le ali a troppi aspiranti scrittori, rispondeva che l’avevano fatto a troppo pochi. E dei suoi contemporanei della beat generation osservò acutamente la componente spirituale del movimento, accusandola di essere al proposito 'facile', incline a misticismo a basso costo. Al proposito ebbe un’intuizione geniale quando disse che l’interesse di molti alle pratiche orientali si deve al fatto che un cristianesimo senza centralità dell’incarnazione e senza Chiesa somiglia parecchio allo zen. E che se il protestantesimo avesse avuto forme monacali probabilmente queste avrebbero attirato l’attenzione che invece deviò sullo zen. La sua attenzione ironica (e davvero allegra, direi, d’un’allegria da santi, da traversatori del 'territorio del diavolo') e la l’acutezza del suo sguardo rendono memorabili alcuni dei suoi racconti. Incisi nel cuoio del cuore, e nel legno delle anime che si lasciano segnare.
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