Si riapre la stagione dei festival, si riapre l’annosa questione della scarsa presenza di intellettuali cattolici in queste rassegne. Una prima scorsa alle bozze dei programmi conferma: la 'compagnia di giro' è sempre la stessa, e sempre marcatamente sbilanciata sul versante laicista. «Bisogna vedere se sono i festival che sdegnano gli intellettuali cattolici – riflette il filosofo Sergio Givone – o se sono gli intellettuali cattolici che sdegnano i festival. Ma è la stessa figura dell’intellettuale cattolico a essere difficile da definire; un filosofo, per esempio, non è né cattolico né non cattolico, ma filosofo e basta. Io mi definisco cristiano, ma so che il cristianesimo comporta, rispetto alla filosofia, un salto, uno scarto – secondo la lezione di Kierkegaard. Detto questo, la questione di una scarsa presenza dei cattolici ai festival resta. Molti li 'sprezzano', e forse almeno in parte fanno bene: è un giusto tenere a distanza, rimarcare che la filosofia non sia quello che si fa nei festival e che in piazza non si può filosofare. Tuttavia, io che partecipo ai festival, in particolare quello filosofico di Modena, li difendo, perché nel pubblico vedo una vera sete di cultura: vengono, fanno domande, ascoltano». Non gli intellettuali cattolici, però... «Ma c’è anche un problema di scarsità di figure di peso. Quando iniziai i miei studi, era cattolica almeno la metà dei docenti; oggi, nel dipartimento di Filosofia di Firenze, su cinquantadue studiosi l’unico dichiaratamente cristiano sono io... I festival sono lo specchio abbastanza fedele di una tendenza dominante». Che gli organizzatori delle kermesse non solo assecondano, ma favoriscono, più o meno consapevolmente: «Il simile cerca il simile – argomenta Givone – e gli organizzatori privilegiano l’affinità, il sentirsi a proprio agio, piuttosto che il confronto. Il risultato è che ai festival – sia tra gli ospiti, sia tra gli organizzatori – gli intellettuali cattolici latitano. Un panorama che mi rattrista, ma d’altra parte in tutta la società italiana contemporanea la presenza cattolica è debole in ogni settore culturale, a partire dalle pagine dei giornali». Sulla necessità di un maggior impegno dei cattolici nell’agorà insiste anche Enzo Bianchi sull’ultimo numero de Il Regno: «Vedere migliaia di persone riunirsi – scrive il priore di Bose – per ascoltare letture pubbliche, dibattiti e incontri è prezioso stimolo», anche se non mancano riserve su queste iniziative, «come se bastasse aggiungere il termine 'festival' per fare di una sagra o di una mostra-mercato un evento di cultura ». Va evitato il rischio di appiattirsi su iniziative nelle quali «come in un supermarket delle idee, i vari 'espositori' metterebbero in mostra la propria mercanzia affinché il cliente possa scegliere il prodotto a lui più confacente» e cercare invece di farne «un’agorà in cui si tenta di elaborare un’etica condivisa, un sentire convergente che legge e progetta il 'bene comune'. Credo che i cristiani – sottolinea Bianchi – dovrebbero saper cogliere l’occasione di rendere ragione con dolcezza e rispetto della speranza che li abita ai laici che li interrogano». C’è quindi sì un problema di visibilità, di scelte 'ideologiche' degli organizzatori dei festival, ma si accompagna a qualche limite della stessa classe intellettuale cattolica: di presenza complessiva nella società, e anche di assunzione di responsabilità. Date per perse le kermesse 'scientifiche' come Sarazana, appaltate ormai senza riserve a Odifreddi & C., i cattolici hanno raccolto buoni segnali dal festival teologico di Piacenza e da quello biblico di Vicenza, in attesa del nuovo Festivalfilosofia di Modena, che da quest’anno potrà contare tra gli organizzatori di figure come Dario Antiseri e Pierangelo Sequeri. Chiarisce il teologo: «Io partecipo, se mi invitano, proprio nell’intento di rendere un servizio. Il cristianesimo non ha motivo di sottrarsi a un confronto culturale, anzi: però ogni volta sono costretto a domandarmi se partecipare a un festival, da cattolico, aggiunge davvero qualcosa, oppure se invece non vuol dire altro che tenere in piedi la macchina di una comunicazione che 'consuma' molto ma 'rende' poco, in termini di servizio al pubblico». Anche Sequeri conferma che la scarsa attenzione degli organizzatori per il mondo cattolico e l’altrettanto scarso interesse dei cattolici per i festival sono due fattori che si sommano: «Da una parte, tra i cattolici c’è poca consapevolezza dell’importanza di queste manifestazioni – e non del tutto a torto: bisognerebbe sfruttarle anche per spiegare ai ragazzi che il vero luogo del dibattito sono le università. Dall’altra parte, spesso – non sempre, io stesso ho personalmente constatato casi di sincero interesse per il confronto – i temi scelti e la selezione degli ospiti palesano un vizio alla fonte. E non mancano i casi in cui ho dovuto dir di no, perché l’impostazione era totalmente a tesi». Sequeri non registra una particolare latitanza cattolica nei circuiti accademici e culturali, quanto piuttosto la tendenza «a entrare solo nei dibattiti strettamente attinenti al proprio settore, con poca attitudine a mettersi in gioco e ad attrezzarsi, anche nel linguaggio, per raccogliere sfide in campo più aperto». Un limite sul quale punta il dito anche la storica Lucetta Scaraffia: «Troppo spesso gli intellettuali cattolici sono autoreferenziali: vivono in un mondo separato, parlano un linguaggio che con un laicista è del tutto inefficace. Al cattolico la citazione di un’enciclica dice molto; al suo oppositore non credente, nulla. Bisogna attrezzarsi, puntare sugli strumenti della ragione, argomentare – per esempio – che la vita è un valore in sé anche al di là della sua comprensione in chiave sacra. Anche la Chiesa dovrebbe favorire maggiormente il dibattito culturale nel laicato cattolico. L’autoreferenzialità offre agli organizzatori di premi e festival il pretesto per escludere i cattolici: e certo non saranno loro a fare lo sforzo di spezzare il circolo, tenendo anzi ben salde le redini della formazione dell’opinione pubblica. Però un po’ di autocritica dobbiamo farla: a volte i cattolici non si sentono all’altezza del contraddittorio, e lasciano perdere. È comprensibile, perché gli altri partono avvantaggiati, possiedono gli strumenti dialettici e giocano sempre in casa, tra un pubblico tutto a loro favore. Invece dovremmo andare a questi festival e mandare in crisi i collaudati stereotipi laicisti». Promotori permettendo, però: «Gli organizzatori tendono a concentrarsi su pochi nomi, soprattutto sacerdoti, che per indole non sono polemisti e che vengono invitati a parlare soltanto di specifiche tematiche: la Bibbia, la tradizione religiosa... È un modo per schiacciare i cattolici sul clericalismo e negare loro lo spazio pubblico. Pochissimi gli inviti a intellettuali cattolici, e pochissimi gli inviti a parlare di temi 'caldi', dalla bioetica al loro punto di vista sul mondo. I laici preferiscono non dare parola – e quindi legittimazione – a chi potrebbe rivelarsi scomodo per le loro tesi».