«Siamo il primo teatro tedesco in Italia». Scherza ma neppure troppo Cristiano Chiarot, sovrintendente della Fenice. Dalla parte sua ha i numeri: a Venezia nel 2013 ci sono state 134 recite d’opera (contro le 72 del 2009), il numero più alto in Italia. Il sipario si è alzato 431 volte mentre gli spettatori hanno sforato quota 150mila. Ma soprattutto gli incassi, dai 5.067.000 euro del 2009, hanno toccato a fine ottobre gli 8.700.000: seconda voce in bilancio dietro i 13,5 milioni del Fus. E dal 2011 i bilanci sono in pareggio.In una situazione a tratti davvero desolante del sistema lirico italiano, quella veneziana sembra un’isola felice. Chiarot, a Milano per presentare la nuova stagione della Fenice che aprirà il 23 novembre con L’Africaine, rarità di Meyerbeer, attribuisce la situazione virtuosa a una forte progettualità: «Stabilito il punto di non derogare da un modello culturale che lega repertorio e ricerca, abbiamo ampliato lo sguardo e analizzato la questione del pubblico. Il nostro scopo è offrire un prodotto di qualità in modo continuativo. È impensabile che la Fenice possa pensare solo al pubblico veneziano. Abbiamo lavorato nella programmazione anche in base ai flussi turistici e adottato la logica di pensare ad allestimenti che possano durare almeno una decina d’anni, come La traviata di Carsen, prima opera nella Fenice ricostruita. La scelta di un semirepertorio che torna nel tempo ha abbattuto i periodi di prova, allargando le finestre per le rappresentazioni». Il teatro ha effettivamente un’utenza a dir poco cosmopolita. Italiano è il 23%, segue il 22% dalla Francia, il 10% dalla Germania. Chi si immagina comitive di giapponesi sbaglia: dal Sol Levante arriva solo il 4%. Ma il dato può essere letto in altro modo, indice anche di un problema culturale. Se il 77% del pubblico della Fenice non è italiano, significa che i contribuenti pagano con le loro tasse (si calcola che alle Fondazioni a livello nazionale il sussidio medio sia di circa 500 euro per spettatore pagante) gli spettacoli agli stranieri.«Chiediamo ai registi – prosegue Chiarot – di progettare le scene in modo che possano essere smontate e rimontate con facilità, per poter allestire opere diverse in sere consecutive. Il modello produttivo pluriennale ci consente di firmare contratti meno onerosi. Il risultato è che alcune opere arrivano ad avere un ritorno economico tale da poter finanziare le altre». Aumento della produttività significa però anche più lavoro. «Bisogna evitare sacche di inoperosità da parte delle masse artistiche. Con i sindacati c’è dialettica continua, posso dire che prende almeno il 30% del mio lavoro. Il sindacato deve essere una cerniera con la base. Per aumentare la produzione non bisogna aumentare la spesa ma ottimizzare orari di lavoro e programmazione. È un fatto che oggi le persone alla Fenice lavorino molto di più di pochi anni fa. È un cambiamento culturale che si ottiene solo con il consenso e il dialogo».
La vita del teatro però deve fare i conti con il famigerato Fondo Unico per lo Spettacolo. Ridotto di anno in anno e spesso, è il caso di dirlo, in corso d’opera. «Senza Fus – prosegue Chiarot – la lirica in Italia non può sopravvivere. È un dato di fatto». Qualche speranza arriva dalla nuova legge: «Il Fus dovrebbe essere redistribuito non solo sui criteri di spese per il personale ma anche sulla produzione. Le Fondazioni si salvano soltanto se tutte si adeguano a regole per una gestione sostenibile e virtuosa». Ma se la riforma di Bray «per la prima volta guarda in modo globale l’intero comparto e a differenza dei precedenti non è punitivo», i timori sono tanti: «La prima stesura era statalista, non premiava una gestione manageriale. Gli emendamenti hanno reso il testo approvato più accettabile. Quello che però ora temiamo sono i regolamenti attuativi».