Una ricetta per sopravvivere, una pillola per morire. Una carriera sotto ricatto. Siamo cavie e siamo oggetti. Non sempre. Ma la realtà assiepata dietro il mercato dei farmaci è spaventosa. Quarto per importanza e fatturato dopo carburanti, fonti energetiche e armi, quello appunto dei farmaci muove enormi capitali, genera profitti disumani, che collidono con l’umanità che dovrebbe, invece, aiutare.
Il venditore di medicine arriva sugli schermi il 29 aprile. «Questo film non è stato realizzato solo per voler denunciare a priori un sistema – spiega il regista, Antonio Morabito –, ma è nato dalla mia esperienza personale durante il decorso della malattia di mio padre». Il protagonista, Bruno, interpretato da Claudio Santamaria, è un informatore farmaceutico, ossia deve convincere i medici a prescrivere quei farmaci che fanno capo all’azienda che rappresenta. Ogni mezzo è utile e consentito: si chiama, semplicemente, corruzione. «Non volevo girare un documentario o un’inchiesta – prosegue il regista –, ma un film che partisse proprio dai fatti, come quelli che si leggono spesso sui giornali, legati all’industria farmaceutica mondiale. Per questo durante le riprese non tutto è filato liscio. Abbiamo avuto la pressione costante dell’ambiente medico e farmaceutico, ho ricevuto centinaia di mail indignate di professionisti che mi accusavano di aver gettato fango sulla loro categoria; il reparto oncologico del Policlinico di Bari ci ha revocato improvvisamente l’autorizzazione a poter girare all’interno dei loro locali e guarda caso si sono tirati indietro anche due medici che lavorano per quello stesso polo ospedaliero. Hanno preso tutti le distanze, ma io mi sono basato sulle testimonianze di persone che ho conosciuto e fanno questo lavoro. Molti mi dicono che il film va giù duro, eppure accadono cose anche più gravi di quelle che racconto. Bruno è soltanto una piccola pedina di un sistema. Schiacciato in una morsa e lui stesso ricattato, se vuole mantenere il suo posto di lavoro». «Ho approfondito un tema che non conoscevo – dice Claudio Santamaria – e ho capito ancora di più quanto può essere cattivo l’uomo: un lupo, uno sciacallo, che arriva a fare cose terribili contro il suo simile in nome del profitto». Nel film un dirigente è molto schietto: «Le nostre coscienze non c’entrano per niente» dice alla sua capo area, un personaggio disgustoso a sua volta (Isabella Ferrari). Bruno si muove di conseguenza. «Ma nel momento in cui vede gli effetti del proprio lavoro su una persona a lui cara – prosegue Santamaria –, che ha accettato di essere una cavia, una coscienza dimostra di averla. In quel momento capisce tutti i suoi errori ma ormai è entrato nell’ingranaggio. È consapevole di essere vittima e schiavo». Bruno le medicine non solo le vende, ma ne è dipendente. «Assume psicofarmaci per tentare di uccidere la sua coscienza e arrivando persino a somministrare alla moglie la pillola anticoncezionale, senza che lei lo sappia». Alla fine, dopo aver lui stesso denunciato un caso di malasanità in un gioco riflesso di ricatti, sale una scala dalle cantine di un ospedale verso una fonte luminosa. «Non è un’immagine positiva né rassicurante. Lui rimane vittima del sistema. Questo è un film scomodo che vuole aiutare lo spettatore a riflettere e a proteggersi».