martedì 20 settembre 2022
Annalisa Consolo ne rilegge la vita ripercorrendo gli scritti e i luoghi Il coraggio di una donna che ribalta la prospettiva sul Male
Etty Hillesum nel 1937

Etty Hillesum nel 1937 - archivio

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Tutti ricordano il suo ultimo messaggio: “Abbiamo lasciato il campo cantando”, scritto su un biglietto gettato dal treno che la portava ad Auschwitz dove avrebbe trovato la morte. O il suo desiderio di essere “il cuore pulsante” della baracca in cui viveva. Su Etty Hillesum (1914-1943), ebrea olandese morta ad Auschwitz dopo aver trascorso quasi due anni nel campo di smistamento di Westerbork, che per oltre centomila suoi connazionali e correligionari diventò negli anni della Seconda guerra mondiale “l’ultima fermata prima di Auschwitz” – di qui passò anche Edith Stein –, esce ora un saggio di Annalisa Consolo intitolato semplicemente Etty Hillesum. Il coraggio della scrittura (edizioni Ares, pagine 160, euro 15,00). L’autrice, che è scrittrice e sceneggiatrice, ripercorre l’ormai nota vicenda di Etty rileggendo le sue Lettere e il suo Diario, in Italia editi da Adelphi, e rivisitando i luoghi in cui è vissuta. Senza farne né una santa né una martire, ma una testimone del Novecento indubbiamente sì. Ebrea affascinata dal cristianesimo, la Hillesum, anche sospinta dal suo maestro, lo psicoanalista Julius Spier, che le suggerì di tenere un diario, s’interroga ben presto sulla questione Dio, dandogli del tu, spronandolo e diventandogli sempre più intima. Ecco cosa scrive a 27 anni, la sera del 19 marzo 1941: «Continua a tormentarmi una grande domanda, che in realtà è l’espressione di un vuoto: il gioco vale davvero la candela? Vale la pena combattere? Non bisognerebbe semplicemente prendere ciò che la vita ha da offrire e basta? Probabilmente dietro c’è una domanda ancora più banale: chi ti ringrazierà per aver lottato o, senza mezzi termini, a chi importerà? Dio, senza dubbio, e queste parole che sgorgano improvvise dalla mia piccola stilografica mi riempiono di umile forza. Forse queste parole – Dio ti ringrazierà – saranno la mia salvezza». Questo brano, riportato dall’autrice, è una chiave di lettura decisiva per approcciarsi a Etty: mentre il male mostra la sua faccia più terribile, la Shoah, lei annota: «Se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio». Visitando il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, nel 2006, Benedetto XVI disse: «Quante domande ci si impongono in questo luogo! Sempre di nuovo emerge la domanda: dov’era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questi eccessi di distruzione, questo trionfo del male?». La Hillesum risponde con la dedizione totale al suo popolo e all’umanità intera, volendo mettere in pratica un “amore cosmico”, quell’amore verso il prossimo di cui intravede il modello nell’Inno alla carità di san Paolo: «Assenza di odio non significa di per sé assenza d’un elementare sdegno morale. So che chi odia ha fondati motivi per farlo. Ma perché dovremmo sempre scegliere la strada più facile e a buon mercato? Laggiù ho potuto toccare con mano come ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo lo renda ancora più inospitale. E credo anche, forse ingenuamente ma con ostinazione, che questa terra potrebbe ridiventare un po’ più abitabile solo grazie all’amore di cui l’ebreo Paolo scrisse agli abitanti di Corinto». È a Westerbork che Etty chiede di essere assegnata, dopo aver fatto parte del Consiglio ebraico di Amsterdam, per poter condividere fino in fondo la sorte degli altri ebrei olandesi, che a partire dal 1942 vengono deportati dall’Olanda alla Polonia. Quando era ad Amsterdam avrebbe potuto mettersi in salvo, ma preferì per sua scelta andare nel campo. Immolazione che non è segno di superbia o ingenuità: è ben cosciente della tragedia che incombe sul mondo e sugli ebrei in particolare: «Tutta l’Europa – si legge in una delle sue prime lettere – sta diventando pian piano un unico, grande campo di prigionia». Descrivendo la vita nel campo, parla di «assoluto inferno» e «totale catastrofe». Ma vuole rispondere in prima persona al disastro cui assiste: «A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un frammento di amore e di bontà che bisognerà conquistare in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere». E torna a interpellare Dio ma non lo incolpa, perché Dio stesso ha bisogno di aiuto: «La vita è pur buona, non sarà colpa di Dio se a volte tutto va così storto, ma la colpa è nostra. Questa è la mia convinzione, anche se sarò spedita in Polonia con l’intera famiglia». Cosa che accadrà il 7 settembre 1943. Nello zaino infilerà la sua piccola Bibbia, una grammatica russa e Tolstoj. Morirà ad Auschwitz il 30 novembre.

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