venerdì 27 febbraio 2015
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«Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto. Ma nel cuore nessuna croce manca. È il mio cuore il paese più straziato». In questi versi di “San Martino del Carso” del poeta Giuseppe Ungaretti, c’è la tragica istantanea di ciò che è stata la Prima guerra mondiale. La “Grande Guerra”, in cui l’Italia entrò un anno dopo, il 23 maggio 1915, per combattere quelli che fino a poco tempo prima erano stati i suoi alleati, gli imperi centrali di Austria e Ungheria. Un successo che al nostro Paese costò molto caro: 650mila vittime, 600mila dispersi e oltre un milione di feriti gravi, molti dei quali ebbero danni permanenti. Si trattava di giovani in età tra i 26-21 anni (dopo la ritirata di Caporetto vennero chiamati alle armi anche i “ragazzi del ’99”), rappresentanti di quella che Dario Ricci e Daniele Nardi commemorano, nel loro libro gioiello, come La migliore gioventù (Infinito edizioni). Un omaggio che parte dal ritrovamento di una scheggia di granata sul sentiero dei Kajserjager sul Lagazuoi, mentre l’alpinista Nardi accompagnava l’amico Ricci, giornalista di Radio 24-Il Sole 24 Ore e il loro “ispiratore giuridico” Vittorio Misiti, nei luoghi del conflitto: Col de Bois, Tofana di Mezzo, Falzarego.Quella scheggia diventa metafora di memoria per quella che papa Benedetto XV bollò come «la strage inutile», in cui non fu affatto marginale l’apporto e il sacrificio compiuto dallo sport italiano. L’interventismo dannunziano contagiò anche la stampa, così che Lo Sport Illustrato divenne “Lo Sport Illustrato e la Guerra”. Da giugno del 1915, “Hurrà Juventus” edito dai soci dello Juventus Football Club si trasformò in bollettino sociale e sulle sue pagine si pubblicarono alcune delle 4 miliardi di lettere recapitate nel triennio bellico. «La vittoria è del forte che ha fede. Sto bene, anzi benone. Il mio piede calca terra già austriaca e mi pare che basti», scriveva baldanzoso il “volontario” bianconero Giuseppe Giriodi nella sua missiva apparsa su “Hurrà Juventus”. Giriodi alla fine delle ostilità sarebbe tornato a casa. Non fu così per altri suoi compagni di squadra: il fondatore del club torinese, nel 1897, Enrico Canfari e Luigi Forlano, protagonista del primo scudetto juventino (stagione 1905-1906). Forlano cadde sul Carso e con lui l’emblema del nostro calcio pionieristico, il capitano dell’Inter e della Nazionale Virgilio Fossat, rimasto insepolto, al quale la penna di Emilio Colombo rese un po’ più lieve la terra salutandolo come «giuocatore di una classe a sé, lascia un gran vuoto perché altri hanno voluto da tempo imitarlo senza poterlo raggiungere».Inimitabile fu anche il piccolo-grande (166 centimetri di altezza) Mario Meneghetti, classe 1895, cresciuto nei salesiani della Voluntas per poi assumere il ruolo di centre-half del Novara. Una diga lì in mezzo al campo, riconoscibile per quel fazzoletto bianco legato dietro alla nuca. In guerra “il Meniga” si specializzò nell’arte della fuga: scappato e riacciuffato, il futuro scudettato con la Juve, riassaporò il gusto della libertà approdando nella neutra Svizzera. Ad accoglierlo lì c’era l’ufficiale Neumeyer, “centre-half” del San Gallo che Meneghetti aveva conosciuto in una tourneè del club elvetico. Potere del football che nel Natale del 1914 procurò la “piccola tregua”. Un pallone veniva lanciato in segno di sfida da un fronte all’altro, specie dagli inglesi che lasciarono sul campo di battaglia 2mila dei cinquemila professionisti iscritti alla Football Association. Il maggior dazio di sangue da noi lo pagò il Genoa - campione d’Italia, a tavolino, del 1915 - che nello scontro perse praticamente metà della prima squadra: il suo “papà” il britannico dottor Spensley, il portiere Gnecco, il terzino Casanova, l’ala Marassi, l’attacante Sussone e il volontario Ferraris al quale è intitolato lo stadio genovese. Nomi e croci che il tenente degli alpini Vittorio Pozzo, insuperato selezionatore azzurro (2 mondiali vinti e un oro olimpico) onorò al sacrario militare di Redipuglia dove portò in visita la Nazionale prima di uno storico Ungheria-Italia. Meazza e compagni rimasero particolarmente toccati da quello scenario funereo e Pozzo li spronò invitandoli a compiere all’indomani (l’11 maggio 1930) «una piccola impresa» rispetto a quella sostenuta dai suoi ex commilitoni. L’Italia a Budapest contro i fortissimi magiari stravinse (5-0) tenendo a mente la lezione della “migliore gioventù”. Tanti di loro erano stati riformati e poi richiamati, altri erano spinti dal monito marinettiano: «La guerra sola igiene del mondo e meraviglioso sport sintetico». Pulizia del bel gesto ginnico di Guido Romano, oro a squadre alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912. Quattro anni dopo sognava altri Giochi, invece sull’Isonzo, a 29 anni, finì nel mondo dei più. A Stoccolma l’alfiere olimpico era stato lo schermidore Nedo Nadi, sottotenente di cavalleria che non rinunciò ad abbracciare il nemico austriaco, il quale, prima che un prigioniero era stato suo avversario in pedana e, quindi, «un amico». Dalla guerra Nadi uscì fortificato come uomo ed atleta, tanto che da Anversa 1920 tornò con cinque ori al collo. Nelle lunghe notti gelide di trincea sognava Anversa anche il granatiere Fernando Altimani, marciatore e idolo della “Gazzetta dello Sport”, specie dopo il primato mondiale dell’ora stabilito a Milano nel 1913. Una ferita alla gamba pose fine alla corsa di Altimani che ripiegò mestamente come tipografo alla Gazzetta. Con meno rimpianti il pugile - peso massimo - Erminio Spalla lasciò il ring. Anche in guerra riuscì a tenersi in allenamento «in una palestra rimediata», così che nel ’19 salì sul gradino più alto ai Giochi Interalleati di Parigi. In finale spedì al tappeto il colosso australiano Pettibridge. Un colpo che gli aprì le porte dell’America, ma il suo futuro di ex allievo dell’Accademia di Brera era nell’arte, tutta: fu scultore, scrittore, cantante lirico («amico intimo di Caruso e Gigli») e attore in una cinquantina di film (tra i quali “Poveri Ma belli” di Risi e “Miracolo a Milano” di De Sica). Possedeva fisico e volto da cinematrografo anche Giuseppe Sinigaglia. Il campione della Canottieri Lario sulle acque del Tamigi tagliò per primo il traguardo della prestigiosa Diamond Sculls, scomodando, sei anni dopo l’epica maratona di Dorando Pietri, la regina Vittoria Mary che gli consegnò la Coppa d’Oro. Fu sempre d’estate, agosto del 1916, quando Sinigaglia tirò i remi in barca per sempre, «colpito a morte alle falde del Monte Zebio». Nessuno, invece, fermò la corsa del “Drake” Enzo Ferrari, arruolato dal 3° Artiglieria Val Seriana «alla “mascalcia”, il reparto che ferrava i muli». Dal mulo (altra vittima sacrificale della Grande Guerra) al Cavallino rampante - in onore dell’eroico aviatore Francesco Baracca - Ferrari avrebbe poi affidato la sua “Rossa” di Maranello a Tazio Nuvolari che si congedò da militare come «pilota spericolato» d’ambulanze. Giovani di genio, ma anche uomini semplici, eroi per caso, scampati a quel «ciclo misterioso degli eventi», che il presidente americano Roosevelt insigniva ricordando che «a talune generazioni viene dato molto; al contrario, ad altre viene richiesto molto».
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