Il monumento ad Arnaldo da Brescia - WikiCommons
«Oportet et haereses esse». È necessario che vi siano le eresie. O, meglio: è opportuno che vi siano divisioni, sì da rendere manifesti i veri credenti. È quanto afferma Paolo nella Prima lettera ai Corinzi (11,19), sottolineando la funzione maieutica della difformità d’opinioni rispetto alla necessità di precisare chi sia provato nella fede. Si tratta di un atteggiamento comune al Cristianesimo delle origini, mutatosi progressivamente in difesa dell’ortodossia dopo che, nel 325, l’imperatore Costantino, deciso a limitare la litigiosità dell’episcopato, in grado di minare la stabilità del corpo sociale, non presiedette il concilio di Nicea, da cui sarebbe fuoruscito il Simbolo della fede. Nel corso dei secoli a venire, interpretazioni diverse del credo cristiano non svanirono affatto. È, tuttavia, a partire dall’XI secolo che si sarebbe tornati a parlare di “eresie”. O, meglio, di “eretici”; in particolare, nell’ambito d’un laicato in crisi, privato dalla Riforma ecclesiastica (che sul laicato aveva contato, salvo risolversi in una decisa “clericalizzazione del clero”) di quel contatto diretto col sacro che aveva caratterizzato i secoli precedenti. È in questo contesto che si situa il sorgere delle cosiddette “eresie medievali”: espressione scorretta, con cui si è soliti definire complessivamente una serie di moti religiosi caratterizzati dal “dissenso”, dalla “disobbedienza”, dal “disallineamento”, dall’“eterodossia” rispetto alle posizioni della Chiesa cattolico-romana. La quale, dal canto suo, vi si riferisce con l’espressione «haeretica pravitas» – l’«eretica nequizia» dantesca –, esplicita nell’affermarne l’implicita malvagità.
Che l’eresia non sia che un punto di vista risulta pacifico. Non sempre, tuttavia, chi si approccia al fenomeno ne è consapevole. Il fatto è che si è sempre eretici “rispetto a” qualcosa. L’importante è non confondere i piani: quello immanente e quello trascendente. Lo storico si occupa del primo. Benché intimamente possa avere simpatia per il secondo, deve mantenere un atteggiamento equo dinanzi al proprio oggetto di studio, pur sapendo di non poter essere asetticamente imparziale. Per evitare errori non può che rifarsi ai documenti. Anche laddove questi non siano che lacerti d’un passato obliato dall’istituzione dominante. Ridare vita a eretiche ed eretici, in fondo, non significa altro che fare la storia dei vinti. È quanto emerge con grande chiarezza dal bel volume curato da Marina Benedetti, professore ordinario di Storia del Cristianesimo presso l’Università degli Studi di Milano: Eretiche ed eretici nel Medioevo. La «disobbedienza» religiosa nei secoli XII-XV (Carocci, pagine 416, euro 39,00). Siamo di fronte a un libro polifonico, frutto dello sforzo di diversi autori, in cui catari, beghine, bizzocche, hussiti e lollardi assurgono a modelli esemplari d’un fenomeno ampio e variegato, espressione d’una volontà d’interpretazione del messaggio evangelico non conforme a quella dominante. Come nota la curatrice, «nel medioevo nessuno si è mai definito eretica o eretico. Coloro verso cui sono usati tali termini diventano eretiche ed eretici involontari. Potrebbe sembrare un’affermazione aprioristica, invece è la prospettiva spiazzante che si desume da un’accurata analisi dei documenti». E proprio dai documenti i sedici saggi di cui si compone l’opera prendono le mosse, configurando, sovente, una vera e propria quête volta a ricucire i frammenti d’un discorso in gran parte obliato. Arnaldo da Brescia, Valdo di Lione, Guglielma, Gherardo Segarelli, Dolcino da Novara, Margherita detta «la bella», Margherita detta «Porète», Jeannette D’Arc, Jan Hus, John Wyclif: non si tratta che di esempi d’un moto più vasto, caratteristico d’un mondo in fermento. Quello stesso mondo da cui sarebbero fuorusciti gli Ordini mendicanti, recanti anch’essi istanze di rinnovamento ma ben saldi e circoscritti all’interno della Chiesa. Cui, non a caso, essa affiderà quell’«inquisitio» sino ad allora appannaggio dei vescovi tesa a strutturarsi progressivamente nel tempo. È così, dunque, che il “dissenso”, la “disobbedienza”, il “disallineamento”, l’“eterodossia”, l’“eresia” diventano «non conformismo». Espressione eminentemente plurale; secondo Benedetti, la più adatta a definire il fenomeno.
I quattrocastelli che compongonoil complesso fortificato catarodi Lastours - Kurtsik / WikiCommons /CCBY 3.0
Il libro è diviso in quattro parti. La prima, “Un’identità molteplice”, con interventi di Francesco Mores, Grado Giovanni Merlo, Daniel Toti e della stessa Benedetti, richiama, attraverso quattro esperienze di disobbedienza religiosa – Arnaldo da Brescia, Valdo di Lione, i catari e Guglielma –, i capisaldi ermeneutici d’una disciplina in rinnovamento, affrontati tramite il contatto vivo con storiche e storici che a tale universo hanno dedicato i propri studi. La seconda, “Silenzio delle donne, silenzio sulle donne”, affidata, oltre che alla curatrice, ad Anna Benvenuti, ad Adriana Valerio e a Marina Montesano, si concentra sull’universo femminile, protagonista d’un pregiudizio diffuso. Donne costantemente in bilico, potremmo dire, capaci d’incarnare quel «dimorfismo» tra eresia e santità cui la curatrice ha dedicato interventi importanti. Il tema ritorna nella terza parte, “Eresia come «moto di cultura»”, che accoglie i saggi, oltre che di quest’ultima, di Anne Brenon, Elizabeth Solopova e František Šmahel, dedicati ai catari, ai lollardi, agli hussiti e ai valdesi alpini, di cui vengono approfondite la dimensione documentaria e quella più eminentemente quella culturale. La quarta parte, “Interpretazioni e immagini al rogo”, con la partecipazione di Rosa Maria Parrinello, Andrea Nicolotti, Francesco Mores e Pavel Helan, è quella più distesa nel tempo, dal bogomilismo al processo templare, all’«eresia modernista» alla «strana storia» del rapporto tra Mussolini e Jan Hus. Siamo di fronte, insomma, a un volume importante, rivolto tanto agli specialisti quanto al più vasto pubblico. La riscoperta del sostrato storico e culturale all’interno del quale quelle esperienze andarono forgiandosi, solidamente fondata sulla documentazione superstite, lungi dal rappresentare un problema, mostra, una volta di più, tutta la ricchezza e la varietà della storia del Cristianesimo (o dei Cristianesimi); la quale è (anche) storia di esseri umani, capaci di vette altissime e di vasti baratri. Ed è qui che si colloca, credo, il suo più grande interesse.