Sergej Ejzenštejn al lavoro di montaggio di un film
Ejzenštejn agli Uffizi? Nel sacrario dell’arte rinascimentale, Leonardo, Michelangelo, Raffaello... Ejzenštejn, che in Italia oggi sembra debitore della propria fama nella memoria collettiva recente a un comico pieno di sano cinismo, Paolo Villaggio, il cui alter ego afferma davanti alla platea di impiegati costretti dal padrone a sorbirsi il cineforum aziendale che la Corazzata Potëmkin è una boiata pazzesca (nella versione cinematografica la Corazzata cambia nome in Kotiomkin e il ragionier Fantozzi si abbandona al più gergale - ma forse più gradito oggi dove la scatologia spopola sui social media - "una cagata pazzesca"). Se nella parodia fantozziana si trattava di un gesto liberatorio contro il capitano d’impresa che obbliga i suoi dipendenti a vedere il film di Ejzenštejn, non c’è dubbio che a quella catarsi da universo piccolo borghese fa da contrappunto aureo l’epica populista del cineasta sovietico e, in qualche modo, la satira lo esalta "e contrario".
Torno alla domanda iniziale: Ejzenštejn agli Uffizi? Non è che siano molti i precedenti di ospitalità cinematografica da parte del museo che conserva una delle collezioni più ricche di arte rinascimentale. Ma, in effetti, Ejzenštejn entra per così dire dalla porta di servizio in questo sancta sanctorum che deborda anche di arte prima medioevale e, poi, manierista e barocca, e riesce a creare un’atmosfera magica grazie a un allestimento che fa reagire disegno e immagine in movimento con una naturalezza che quasi prende in contropiede. I disegni di studio del cineasta russo per i suoi film corrono su bacheche leggermente inclinate in piano, che sembrano brevi spezzoni di fotogrammi esposti a piede delle immagini filmiche proiettate sulle pareti. Mi rendo conto di andare anche oltre il consentito, ma si potrebbero considerare queste linee continue di studi grafici come predelle alle grandi 'pale' filmiche che si susseguono sulle pareti. Gli ambienti poco illuminati facilitano questa immersione nello spazio che congiunge fisicamente l’idea disegnata e l’eterea immagine che prende vita e si muove. Un’estetica, quella dei film di Ejzenštejn, che partecipa del tempo in cui il cinema era muto (l’unica cinematografia degna di questo nome, per esempio, a parere di un altro genio di quest’arte, Charlie Chaplin, a cui non a caso Ejzenštein dedicò saggi di acuta comprensione critica; ma - sempre per fugare il pensiero che possa trattarsi di mera coincidenza - si ricordi anche che il regista russo fu autore di un ammirato saggio su Walt Disney, i cui fumetti riconduceva a certe forme di pensiero sintetico dell’immagine primitiva); vicino, ma di una retorica più ieratica, anzi, mistica fin nel modo stesso di concepire la plasticità iconica dei suoi attori (con una decisa propensione al rituale sacro, per esempio quando coinvolge Artaud fra i suoi interpreti) è il cinema muto di Carl Theodor Dreyer; mentre si presenta già purgato di quella coscienza borghese che ha trasformato il cinema in grande industria culturale dei miti e del divismo hollywoodiano, il cinema di Pasolini, dove il Vangelo secondo Matteo certo ha in sé qualche memoria di Ejzenštejn e nella scelta di impiegare comparse prese dagli abitanti dei Sassi di Matera, a suo modo, rende omaggio al cineasta russo.
Il volume-catalogo (edito da Giunti) che accompagna la mostra dei disegni di Ejzenštejn intitolata La rivoluzione delle immagini (titolo davvero un po’ fuorviante, se si resta fermi al tema che gran parte dei saggi in catalogo affronta e in qualche caso sviluppa, ovvero il legame del regista russo con la pittura rinascimentale) è certamente uno strumento importante per i molti riferimenti che offre arando un campo dell’opera di Ejzenštein finora poco o niente esplorato (lui stesso, peraltro, si definiva - forse a torto - un cattivo disegnatore); tuttavia ci lascia con un retrogusto acerbo, come se la tesi fondamentale che ha permesso di allestire questa mostra agli Uffizi fosse alla fine poco dimostrata e dunque risultasse più un pretesto che una vera pista d’indagine. Naturalmente, la notevole cultura di Ejzenštejn non lo rendeva affatto digiuno dell’arte rinascimentale, anzi, ma la sua visione era ben oltre e forse più da proiettarsi concettualmente verso l’architettura (laddove teorizza la superiorità assoluta del cinema che reintegra in sé tutte le altre arti).
Quando in Sempre avanti Ejzenštejn accenna ai 'giganti del Rinascimento', ovvero - come ricorda Marzia Faietti nel catalogo -, la Sistina e il David di Michelangelo, l’Ultima cena di Leonardo e - attenzione - la Madonna Sistina di Raffaello, rende omaggio all’Occidente. Ma non va dimenticato che i teologi russi (da Solov’ëv a Bulgakov e Florenskij) accusarono proprio l’arte rinascimentale di essere pagana, e il dibattito interessantissimo sulla Madonna Sistina spiega la distanza spirituale fra il cristianesimo russo e quello cattolico. Forse sarebbe stato meglio coinvolgere qualche studioso di spiritualità e mistica russa per inquadrare meglio questo rapporto col Rinascimento che certo segna Ejzenštejn come ha segnato Malevic. Ugualmente, quando si tocca il discorso del primitivismo nel disegno di Ejzenštejn, si deve tener conto di un universo recente di studi sull’influenza delle forme simboliche degli antichi popoli delle steppe sugli artisti delle avanguardie russe, tema emerso proprio in una mostra tenutasi pochi anni fa a Firenze (nel suo saggio Pierluca Nardoni accenna infatti ai “primitivi autoctoni” «ossia quelli legati alla tradizione popolare russa che tanto avevano affascinato Goncharova e compagni»); primitivismo e sciamanismo ripresi da elementi delle credenze asiatiche primordiali, ma soprattutto dalle tradizioni della cultura contadina e non a caso il giovanissimo Chagall prima di venire in Europa disegna uomini e donne dei kolchoz il cui aspetto richiama l’unità dell’universo agreste, che Chagall esprime attribuendo caratteri somatici analoghi alle figure umane e a quelle del mondo animale.
Ejzenštejn non è dimentico di questo quando realizza la Corazzata Potëmkin o Ivan il Terribile (che prima piacerà a Stalin e verrà poi da lui rifiutato nella seconda e terza parte). Ejzenštejn è tolstojano più che rivoluzionario, sta col popolo perché sente, da uomo colto, che può aiutarlo a riscattarsi dalla propria condizione d’inferiorità (anche spirituale). Ma la rivoluzione di Ottobre aveva soffocato le speranze che si erano accese in quella di Febbraio e il seguito riguarda anche lo sviluppo 'dirottato' delle arti, di cui Ejzenštejn fu testimone e, a suo modo, anche profeta all’estero (venne invitato a Hollywood dalla Paramount Pictures nel 1930, approdò a New York e si spinse fin in California con un ricco contratto, ma poi non fece nulla e ben presto Stalin lo richiamò in Urss).
Nel saggio Peripezie della pars pro toto, compreso nel volume Il metodo, che uscirà a breve da Marsilio, Ejzenštejn scrive: «Per il pensiero sensibile, la parte equivale all’intero» e dunque «nel disegno e nella pittura, la pars pro toto è la possibilità di suggerire l’intero per mezzo di una linea o di una macchia, senza raffigurarlo nella sua completezza». Linea e movimento, ecco dove si cela la grande questione estetica di Ejzenštejn, e il mezzo che porta la linea a farsi movimento è una sorta di transfert di energia, una danza, ciò che, come viene evocato spesso nel catalogo ricollegandosi alle affermazioni del regista russo, rappresenta una forma di estasi. Così il gesto dei due kolchoziani scolpiti da Vera Muchina per svettare in cima al palazzo progettato da Iofan per l’Esposizione Universale del 1937, lo spingersi in avanti con le braccia alzate mentre impugnano i simboli del socialismo sovietico come due tedofori olimpici, è lo stesso scatto in avanti che la linea continua nei disegni di Ejzenštein compie mettendosi in movimento animando forme sintetiche e quasi astratte (raffinatissime per la capacità di tradurre in un contorno i valori simbolici sepolti nella psiche dell’uomo russo), che - qui siamo d’accordo possono persino riflettere la memoria visiva delle battaglie di Paolo Uccello (considerando però che quest’arte fu sempre una memoria differita per il cineasta russo, un viaggio o sogno irrealizzato ma non per questo meno presente nel suo pensiero).