venerdì 23 ottobre 2020
L’ala destra del 1° scudetto del Napoli racconta la sua vita presa a calci e l’eterna amicizia che lo lega al “Pibe de oro” «Diego è l’uomo più generoso del mondo. Ho fatto errori, la Figc mi aiuti»
Diego Maradona insieme a Pietro Puzone

Diego Maradona insieme a Pietro Puzone - /

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«Sono stato un bomber io... ho giocato con Diego. Ma voi, che ne vulete sape’? », diceva Pietro, tra sé e sé, rientrando a casa nelle notti di solitudine dell’ala destra. Notti tristi, dolorose, distanti anni luce da quelle magiche dell’autunno caldo del 1985, quando Pietro Puzone era l’ala destra del Napoli del “Pibe de oro”, Diego Armando Maradona. «Certo che c’ero al San Paolo il 5 luglio dell’84, quando Diego è arrivato...». Parla a fatica Puzone dalla sua casa di Acerra. Pietro è un Pulcinella stanco, è reduce da un intervento all’intestino, ma soprattutto è un sopravvissuto a Una vita presa a calci, che è poi anche il titolo dell’unica vera biografia autorizzata di Maradona (scritta da Sergio Levinsky). «Non l’ho letta, io sono ignorante – fa sottovoce – però io Diego lo conosco bene, forse meglio di tutti qua a Napoli». “El Diego” infatti appena entrato in contatto con quel messico napoletano degli anni ’80 (anni di sparatorie, di droga e di camorra selvaggia, combattuta con coraggio dall’allora vescovo di Acerra, don Antonio Riboldi) in diretta tv alla domanda di Antonio Corbo rispose con il suo sorriso da simpatica canaglia: «Chi è il mio migliore amico napoletano? Pietro Puzone».

Pietro, la “testa matta” della Primavera del Napoli di Mariolino Corso: «O’ Mistér, mi voleva bene come un figlio, ma una volta in ritiro mi beccò che amoreggiavo con una ragazza e mi rispedì a casa. Non sapevo cosa raccontare ai miei genitori, mi stavo giocando la carriera... Poi Corso mi richiamò prima di una partita con il Palermo e a muso duro mi disse: “Oh, oggi o ci fai vincere la partita oppure rivai a casa, e per sempre”. Segnai una doppietta e vincemmo 4-1... Povero Mariolino, è morto da poco vero?». Si rattrista Pietro, che i cattivi pensieri che gli rimbalzano nella mente un po’ confusa li spazza via solo quando gli riesce qualche rovesciata vincente nel passato. Tipo quel giorno di gennaio dell’85, quando, contro tutto e tutti, riuscì nell’impresa di portare Maradona nella sua Acerra per una partita di beneficenza. «Un bambino doveva essere operato d’urgenza al palato e Diego quella volta, generoso come sempre, pur di accontentarmi sfidò il presidente Ferlaino che per paura che si infortunasse non gli aveva dato il permesso di giocare».

Ma Maradona sì sa, non lo ha mai fermato niente e nessuno, tranne se stesso, e così inventò una delle sue tante magie napoletane. «Si fece un’assicurazione da 12 milioni pagandola di tasca sua e grazie a lui, allo stadio vennero anche e’ vecchiarelle di Acerra. Incassammo 20 milioni di lire che bastarono giuste giuste per l’intervento della creatura». Ogni tanto Puzone quella mitica partita acerrana se la va a rivedere «sul telefonino, il computer non lo tengo, sono ignorante glie l’ho detto».

E quella giornata di pioggia, forse, è stata la più solare della sua personale storia di cuoio. Nel video amatoriale si vede il più forte “10” del mondo che fa il riscaldamento sul parcheggio a ridosso del campo sportivo: un pantano pieno di pozzanghere e crivellato di buche assassine, «era il campo dove il 17 dicembre del 1947 aveva giocato anche il Grande Torino. Oggi è diventato un parco pubblico», sottolinea l’amico e collega Antonio Pintauro, ufficio stampa della Diocesi di Acerra. Diego scatta e dribbla tra le macchine parcheggiate appena dietro la porta e si presta «generoso, come sempre», ripete Pietro, alla foto con cinque scugnizzi felici e incappottati e il suo amico inseparabile Puzone. Il “9” azzurro: caschetto alla Nino D’Angelo, capitano e re per un giorno sul campo della sua città.

Erano giorni da testardi senza gloria quelli per Pietro, classe 1963, tre anni meno di Maradona che il 30 ottobre piazzerà sotto il set della sua esistenza turbolenta il 60° sigillo. Un talento Puzone, «tecnicamente ero molto più forte di tanti milionari di adesso, ma la capa non è mai stata bbona e quella m’ha fregato», racconta amaro. A 19 anni, davanti alla stessa folla (60mila spettatori) del San Paolo che era accorsa quel 5 luglio per Maradona, Rino Marchesi lo fa debuttare contro il Cesena. Ma non è ancora pronto per quel palcoscenico e lo spediscono in prestito alla Cavese, in B. La “Real Cavese” quella che sbancò il Milan dei record (in B) a San Siro, davanti a 50mila spettatori basiti. «Certo che c’ero anche quel giorno (7 novembre 1982). Entrai al posto di Tivelli che con Di Michele segnarono i gol di quella vittoria storica per Cava (1-2)». Da Cava dei Tirreni ad Agrigento, «all’Akragas mi allenava il “Professore” Franco Scoglio, un maestro di tattica e non solo» e poi rientro a Napoli in tempo per dare il benvenuto al “Pibe de Oro”. C’era ancora Marchesi e mi fece fare panchina ad oltranza. In compenso dopo gli allenamenti mi divertivo come un pazzo, stavo sempre con Diego, ero la sua “guida di Napoli”. Guidava una Ritmo rossa con cui giravamo la città, andando per ristoranti e locali notturni. Eravamo felici e anche ricchi, perciò appena vedevamo qualcuno in miseria non ci tiravamo mai indietro per aiutarlo. E quando in incognito passavamo per i vicoli di Napoli non c’era giorno che Maradona non regalasse soldi a qualche scugnizzo o si prendesse cura di qualche famiglia di povera gente. Per lui vivere in questa città era un po’ come essere rimasto a Buenos Aires».

Tango argentino, ma il Napoli non ballava in campo, e dopo un 4-3 contro l’Udinese Maradona forte di una doppietta da campione urlò a brutto muso a Ferlaino: «O mi fai la squadra o me ne vado!». «E io c’ero anche quel pomeriggio, e ridevo, perché da quel momento il Presidente capii che Diego faceva sul serio: doveva costruire un grande Napoli se voleva che Maradona restasse. Io invece passai ancora in prestito al Catania, e fu la mia stagione migliore, giocai quasi sempre e segnai 3 gol. E così il Napoli mi riprese. Anche perché fu Diego a chiederlo a quel gran signore che è stato Italo Allodi ». Il general manager Allodi, maestro di tutti i direttori sportivi, costruì quel Napoli da sogno. Ottavio Bianchi in attacco poteva schierare la prima “MaGiCa” azzurra, composta da Maradona, Bruno Giordano e Andrea Carnevale (poi sarebbe arrivato Antonio Careca). «Grandi amici pure Bruno e Andrea, quanti scherzi e quante risate con loro assieme a Diego... Bianchi all’inizio mi vedeva, poi quando seppe che con Maradona facevamo l’alba tutte le notti mi mise da parte. Mi considerò il “responsabile”. Che facevamo? Di tutto... Sfrecciavamo a trecento all’ora con la sua Ferrari fino a Roma. Eravamo pieni di donne e di amici, parecchi fasulli, ma io solo per il fatto che stavo affianco a lui, al più grande giocatore del mondo, mi facevano sentire importante. Ero il “secondo del mondo”», dice nostalgico Puzone che si illumina quando ripensa al giorno del primo storico scudetto del Napoli. Era de maggio, il 10, «non a caso» del 1987. «Sono stato campione d’Italia, già... e ho vinto anche la Coppa quell’anno, anche se non sono sceso in campo neppure per un minuto. Però Diego disse a tutti che quello scudetto era anche mio, “del mio amico Pietro Puzone!”».

Si commuove Pietro che quella stagione in paradiso sotto il Vesuvio ce l’ha tatuata nel cuore, specie all’altezza del portafogli . «Incassai il premio scudetto e festeggiammo per giorni con Diego e i compagni. Napoli era impazzita e io mi sentivo un divo. Avevo anche recitato in un film, Il ragazzo della Curva B sì con il mio “sosia” Nino D’Angelo». Ma in estate, nonostante le raccomandazioni di Maradona, il Napoli ripiazza Puzone al Catania e da lì sbarca allo Spezia («con me giocava Luciano Spalletti. Bravo? Meglio come allenatore») per poi andare a chiudere la carriera da professionista in C, all’Ischia Isolaverde, chiamato da mister Rambone «che mi voleva bene e mi aveva allenato anche a Catania».

Triplice fischio finale, Puzone entra nel club meno funesto dei “27”, quelli che a 27 anni hanno già chiuso con il pallone dorato. «Ho fatto tanti errori, più o meno gli stessi di Diego, e mi dispiace, soprattutto per mia figlia, oggi ha trent’anni e spero che un giorno mi perdonerà... E poi perché potevo giocare, come tanti calciatori di adesso, fino a 40 anni e mettere da parte quei soldi che ora mi farebbero campare con dignità».

Lo scorso inverno Pietro era arrivato al limite, tra problemi di dipendenza e quelli economici si aggirava per la sua Acerra, tra il Sert e il bar della piazza, come un clochard che spera ogni giorno in un assist divino. «Ogni tanto mi affaccio in chiesa e prego Dio che mi aiuti, perché non ho un lavoro e non percepisco nessuna pensione da calciatore professionista». Si ferma e fa un respiro profondo, poi riattacca con la voce rotta: «Faccio appello alla Federcalcio, al presidente del Coni Giovanni Malagò: ho buttato via gli anni più belli, lo so, ma al pallone ho dedicato la parte più importante della mia vita. Non ho tutti i contributi perché sono stato professionista dal 1981 al ’90, ma dai Giovanissimi fino alla Primavera ho giocato, segnato tanto e vinto pure campionati nazionali, in un settore professionistico come quello del Napoli... Una pensioncina, anche minima, me la meriterò pure io o no?». Dice con l’ultimo respiro di giornata l’ex ala destra che prima di tornare nella sua solitudine sbarrata come un catenaccio ringrazia tutti i suoi ex compagni che in questi mesi l’hanno sostenuto: «Ho rivisto Peppe Bruscolotti che per me era come un padre quando entrai in prima squadra. Ma il mio fratello era e resterà per sempre Maradona. Anche da lontano sento il calore di quando Diego torna e mi abbraccia forte: mi bacia su questa guancia, e poi mi dice sempre, ti voglio bene Pietro».

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